2003: 19 dicembre, Asmara

 Ma è il Muezzin?... Sì, è proprio il Muezzin. Un’occhiata  alla sveglia mi dice che sono le cinque: appena due ore di sonno nero, senza immagini, senza sogni e….. questo risveglio sonoro, stridente, metallico, aspro… ma è il Muezzin, lo stesso che trentasei anni passati mi diceva ogni mattina che c’erano ancora due ore per dormire prima di affrontare la giornata…. poi, del resto, era talmente consueto che neppure lo sentivo più. E… ora non è un’immaginazione, sono qui: la voce del comandante dell’aereo di linea dell’Eritrean Airlines, appena terminato il decollo, la cintura ancora allacciata, dice (questa volta anche in italiano) che voleremo per cinque ore e quindici minuti ad un’altezza di dodicimila metri… E’ successo solo otto ore fa quando le ruote del carrello hanno staccato la pista di Fiumicino, un altro continente. Ecco come si fa presto a tornare a “casa”. Un attimo faccio il conto del fuso orario: due ore avanti…… a Roma avrei ancora tutta la notte per dormire... ma anche ora, essendo appena le cinque… no, sono sveglia come  fosse mezzogiorno e la furia di andare alla finestra, tirare le pesanti tende per guardare il cielo, il cielo che mi manca da troppo tempo non mi fa indugiare neppure un altro istante.

Ecco, è fatta: la tenda tirata ha scoperto… un palazzo alto e stretto, alto almeno otto piani (saprò che è un albergo), al di là della terrazza e del cortile e della grande strada, ferma lo sguardo su tutto quel cemento impedendogli di raggiungere il cielo. E, ancora accesi a quest’ora semibuia, i potenti riflettori  che illuminano la facciata dell’Ambasciata d ‘ Italia divisa dalla mia finestra  appena dall’artistico muretto traforato della terrazza, oscura completamente il firmamento. E le stelle? E’ l’alba si, ma pallide appena luccicanti ci saranno ancora! Stanotte, nel  breve tragitto in taxi tra l’aeroporto e qui (via Garibaldi, all’inizio, vicinissima piazza Finocchiaro Aprile) sia per l’illuminazione stradale che per la stanchezza, non ho potuto cercarle. E ora, e domani, e per tutti i giorni che resterò qui sarà inutile saltare dal letto al richiamo del Muezzin: niente alba, niente sfumature del cielo che da livido diventa rosa e sbiadisce le stelle tanto da farle sparire fino alla prossima sera.

E la voce stridente, metallica, stereofonica – certo trasmessa da un disco – del Muezzin tace. Lascio cadere la tenda e torno a letto delusa. E non arriverà fin qui – troppo lontano -.neppure il dolcissimo suono di quella specie di xilofono fatto di pietre posto nel grande piazzale della chiesa di Nda Mariam, la chiesa delle uova –così la chiamavano i nostri nonni e i nostri genitori – la mirabile chiesa che, lontani trentasei anni, vedevo dalla finestra della mia casa in viale Mussolini, proprio alla fine, dove allora finiva la strada, dal terzo piano del palazzo Bahobeshi, le sue torri quadrate erano uno spettacolo, i suoni di quello strumento formato da pietre di diverse misure e forme, appese a un traliccio di ferro per mezzo di un cavo metallico, più lungo, più corto, più o meno arrotolato come si fosse accordato un pianoforte, battute da un’altra piccola pietra stretta in una mano sapiente, spandeva nell’aria fin giù nella vallata, e poi su fino all’Amba  Galliano e di qua fino alla mia finestra, squillanti suoni acuti eppure dolcissimi ripetuti dall’eco quando un ostacolo riflette le sue onde sonore…. Ma domani vedrò (con quale sentimento?), che tra la mia finestra e Nda Mariam è “cresciuto” un lussuoso palazzo di sei piani: vetri (tanti) grigio fumo, muri (pochi) color tortora.

E lassù ancora più in alto della terrazza un’insegna gialla, gigante, ci dice, in tigrino e in inglese, che qui è la Banca Commerciale. Il palazzo Bahobeshi – pareva altissimo con i suoi cinque piani! – e tutte le “casupole” intorno… maltenute, prossime a rovinare…. paiono vergognarsi. Il sole  invece è sempre “lui”, la sua luce abbaglia e scalda (il termometro all’interno dell’auto alle ore quattordici segna trentacinque gradi!) e …ti ricordi che in Asmara, la mattina, cambia la temperatura da un marciapiede all’altro? Da un vicolo in ombra all’angolo assolato?

Ora sono le dieci e mezza e in Cattedrale è l’ora della Messa. Tanta gente. Una suora mi viene incontro parlandomi in inglese. Sorride felice quando mi scuso di non capirla: è italiana ma di italiani in giro….. ha in mano dei foglietti per seguire le preghiere, la Messa, scritti in italiano naturalmente perché a quest’ora la funzione è nella nostra lingua anche se riempiono i banchi quasi esclusivamente eritrei, quelli cattolici che lo sanno tutti, vecchi e giovani.

Altre suore già sedute nel banco davanti, si voltano, mi sorridono, salutano con un cenno della testa. Sono una “faccia nuova” e metto curiosità, è sempre stato così: quando uno “straniero” arrivava in Asmara attirava l’attenzione di tutti ( i ragazzi facevano capannello e poi scia dietro a una nuova “italiana” anche se non aveva nulla d bello, di interessante, era solo una novità, una scommessa per chi arrivava primo…. e noi ragazze, certo, non eravamo affatto compiaciute! n.d.oggi); la mia faccia non è nuova, ha solo trentasei anni di più. E dici niente? E chi ti riconosce? Prova ad andare tu…. dopo che hai detto chi sei ti fanno un sacco di feste: allora si, “sei sempre uguale”! ( Oh!).

La funzione non è ancora  incominciata e dall’altare di S. Giuseppe, il primo a sinistra, arriva musica, musica perché la domenica a quest’ora la messa è cantata. Ma non è un organo, è il  suono di tastiera e di flauto e di tamburello e di conga e di chitarre elettriche e…. di voci femminili e maschili. Un vero concerto. Sono i bravissimi ragazzi che frequentano la parrocchia. Nei primi anni dell’altro secolo, quando ancora non c’era la Cattedrale, nella piccola chiesa di S. Marco dei frati Cappuccini, monsignor Carrara permetteva di fare musica durante la Messa: suono di colorò (?) kandà e negarit, uomini e donne indigeni già allora, frati Francescani già da allora e tanti fedeli come oggi, i nostri nonni e i nostri padri, i bisnonni, i nonni e i padri di questi bravi ragazzi.

 

Marisa Baratti

(Mai Taclì N. 2-2004)