Mogadiscio 1948

CRONACA DI UN ECCIDIO

di Raffaele Laurenzi

54 italiani e 14 somali uccisi, 55 e 43 feriti; centinaia di abitazioni
e negozi saccheggiati: 
questo il bilancio dell’aggressione subita,
l’11 gennaio del 1948, dagli italiani e dai somali filo-italiani
da parte dei manifestanti del Somali Youth League,
una minoranza sostenuta dalla 
British Military Administration. Che non intervenne.

di Raffaele Laurenzi



Ci vollero due giorni perché gli italiani sapessero che un centinaio di loro connazionali erano stati trucidati o feriti a Mogadiscio.

Ci vollero due settimane per sollevare, almeno in parte, la cortina di disinformazione e di silenzi con cui i dirigenti della B.M.A., la British Military Administration della Somalia, avevano oscurato la verità.

Bastarono meno di due mesi perché i fatti dell'11 gennaio del 1948, giorno dell'eccidio, fossero insabbiati, in nome della ragion di stato.

Non ce ne meravigliamo: l’intero nostro periodo coloniale, oltre cinquant’anni, è stato rimosso dalla memoria. Insieme ad esso è stato rimosso il dramma dei profughi delle ex colonie.

Prima di ripercorrere gli avvenimenti, è necessario tracciare il quadro della situazione politica in cui si trovavano le nostre ex colonie dopo l’occupazione dei britannici, che avevano esautorato l'amministrazione civile italiana e l'avevano sostituita con un’amministrazione militare. Ogni guerra comporta sconvolgimenti politici e sociali. Ma non sempre i governi ne sanno valutare la portata. La fine della seconda guerra mondiale aveva visto la divisione del nostro pianeta in due blocchi: quello capitalista guidato dagli Stati Uniti e quello comunista guidato dall'Unione Sovietica. Ciò condannava la Gran Bretagna a un lento, ineluttabile declino politico e militare, accompagnato dagli scricchiolii del suo immenso impero.

Mentre il colonialismo di tradizione ottocentesca volgeva al tramonto (nel 1960, in Africa, 17 colonie francesi, belghe e britanniche avrebbero ottenuto l’indipendenza), si affermava infatti in Africa una nuova forma di colonialismo, il cosiddetto neocolonialismo, esercitato con assoluta spregiudicatezza da USA e URSS.

Il Regno Unito tentò di resistere al nuovo corso della Storia. Ritenne che la vittoria l’autorizzasse a estendere i suoi domini, come era avvenuto dopo la guerra 1914-18, quando assieme alla Francia si spartì le spoglie degli Imperi Tedesco e Ottomano. Perciò voleva per sé l’amministrazione fiduciaria della Somalia, colonia che aveva conquistato militarmente nel 1941.

La speranza di riavere le colonie

Il controllo della Somalia, attraverso un’amministrazione fiduciaria che in dieci anni avrebbe accompagnato il paese all’indipendenza, avrebbe intanto consentito alla

Reparto di King’s African Rifles in marcia. I «fucilieri del re», reclutati in Uganda, Kenya, Rodesia e Somalia Britannica, venivano utilizzati nei possedimenti coloniali britannici in Africa orientale. Nel 1941 furono determinanti nella disfatta italiana in A.O.I. Il corpo, fondato nel 1902, fu sciolto negli anni Sessanta, quando la Gran Bretagna concesse l’indipendenza alle sue ultime colonie in Africa. Idi Amin Dada, dittatore dell’Uganda dal 1971 al 1979, si era formato nei King’s African Rifles.

Gran Bretagna di unire i suoi possedimenti lungo la costa orientale dell'Africa dal Kenya al Somaliland. La Gran Bretagna progettava, nello stesso tempo, di spostare più a nord il confine della Somalia fino a includere l'Ogaden, ricco di risorse minerarie, a scapito dell’Etiopia, che sarebbe stata ricompensata con vantaggi territoriali in Eritrea (i «ritocchi» delle frontiere erano uno dei passatempi preferiti dei leader delle potenze vincitrici, che alla conferenza di Jalta, febbraio 1945, lo praticarono senza scrupoli sulle carte geografiche di tre continenti, generando spesso contese che avrebbero dato luogo a interminabili guerre e guerriglie).

Neppure l’Italia democratica comprese la portata dei cambiamenti che stavano sconvolgendo il mondo. I governi De Gasperi, che si succedettero in quegli anni turbolenti col sostegno di tutti i partiti del cosiddetto arco costituzionale, quindi fino al 1947 anche del Psi di Nenni e del Pci di Togliatti, s’illusero che le ex colonie potessero essere rese all’Italia. Il nostro ministro degli esteri conte Carlo Sforza, sincero antifascista e repubblicano, si batté strenuamente perché le colonie tornassero all’Italia. Il ministero dell’Africa Italiana, che aveva sede a Roma in piazza del Quirinale, rimase operativo fino al 1953 (nel 1955 sarebbe diventato sede della Consulta), benché a ranghi sempre più ridotti. La lettura dei giornali di quegli anni conferma che tutta la nazione riteneva legittime le richieste del nostro governo, anche in considerazione del fatto che la presenza italiana in Libia, Eritrea e Somalia era precedente al Ventennio fascista. Non solo, era opinione comune che gli italiani delle colonie, ancora numerosi, fossero bene integrati e che il loro contributo fosse fondamentale per l’economia e per l'evoluzione politica di quei paesi.

In Somalia, in particolare, le comunità araba e indiana e la gran parte di quella somala erano favorevoli al ritorno dell'amministrazione italiana, che aveva lasciato tracce importanti sul territorio, al prezzo di ingenti investimenti e sacrifici.

 

La crisi diplomatica con la Gran Bretagna, scoppiata in seguito all’eccidio dell’11 gennaio, fu gestita dal governo presieduto da Alcide De Gasperi (a sinistra), con Carlo Sforza (a destra) ministro degli Esteri.

L’intervento dell’Onu

Al contrario degli italiani, i britannici avevano impoverito la Somalia, privando gli agricoltori di strumenti e mezzi di trasporto, smantellando e trasferendo in India tutto ciò che potevano delle opere realizzate dagli italiani. La ferrovia Mogadiscio-Villaggio Duca degli Abruzzi, l’unica della Somalia, gli impianti della saline di Hafun, i ponti di ferro sull’Uebi Scebeli fecero quella fine. In Migiurtinia venne delicatamente smontato, imballato e imbarcato per l’India persino un piccolo impianto sperimentale di dissalazione dell’acqua a energia solare, composto da un gran numero di pannelli di vetro. Le miniere di piombo e stagno nel nord della Somalia furono chiuse. Le floride piantagioni del comprensorio agricolo di Genale, a sud di Mogadiscio, rimaste prive di mezzi per produrre e per trasportare i prodotti agricoli, furono in gran parte abbandonate. Le paghe erano da fame, la miseria era palpabile, l'assistenza sanitaria un ricordo.

Il destino della Somalia, come delle altre ex colonie italiane, era adesso nelle mani dell’Onu, che a sua volta era nelle mani dei suoi membri permanenti, cioè le potenze uscite vittoriose dalla guerra: Stati Uniti, Urss, Gran Bretagna, Francia.

L’Onu stabilì che una commissione composta da rappresentanti delle potenze vincitrici avrebbe condotto un’inchiesta nelle nostre ex colonie, allo scopo di accertare i sentimenti della popolazione e l’orientamento dei partiti politici che si erano costituiti dopo la fine della guerra. La commissione avrebbe deciso di conseguenza se affidare il destino della Somalia agli italiani o ai britannici, in vista della completa indipendenza politica e amministrativa della nazione.

Somali manovrati dagli inglesi

La Lega dei Giovani Somali (Young Somalis League), nazionalista, era il partito anti-italiano. Poteva contare su una buona organizzazione e sul sostegno dei britannici, che nel 1943 ne avevano favorito la costituzione, dopo aver constatato il generale sentimento di fiducia che i somali conservavano per l’amministrazione italiana anche dopo l’occcupazione. Tra i benefici concessi dai britannici alla Lega, quello di reclutare nelle sue file i gendarmi incaricati di mantenere l’ordine pubblico, che erano armati ed ebbero una parte importante nella mattanza dell’11 gennaio.

Mogadiscio nel 1938. Dieci anni dopo, la mappa topografica della città è praticamente immutata. Nella zona nord, oltre la ferrovia, piazza 4 novembre, dove si ammassano i dimostranti. Da qui i Giovani Somali si avviano verso viale 24 maggio, sfilando a ridosso della ex casa del Fascio.

La Lega aspirava all’unità nazionale, alla «Grande Somalia»: quella italiana assieme al Somaliland britannico e all’Ogaden etiope, in contrapposizione all’antica organizzazione patriarcale delle cabile. Ma aveva poco seguito. L'idea di una «Grande Somalia» era infatti estranea alla tradizione e alla cultura dei somali, in gran parte pastori nomadi che, prima dell’arrivo degli italiani che avevano unificato il paese, erano divisi in sultanati o sottomessi alla dominazione di Zanzibar.

Alla Lega si opponevano i somali favorevoli al ritorno degli italiani. Essi aderivano al movimento Conferenza per la Somalia, che si era costituito soltanto poco tempo prima, col sostegno della comunità italiana. Si voleva così contrastare la Lega, ma si alimentava l'escalation di odio che già si stava manifestando con ripetuti attentati ed episodi di violenza, tollerati o perfino incoraggiati dai britannici.

Il 6 e il 7 gennaio i membri della commissione quadripartita giunsero a Mogadiscio a bordo di tre bimotori Douglas C47 Dakota con le insegne dell’Onu. Centinaia di tricolori, che per anni erano rimasti nascosti nelle case e nei negozi degli italiani, colorarono la città. Somali e italiani si riversarono nelle strade. Poi sfilarono festosamente a bordo di automobili e autocarri, impavesati di bandiere, seguiti e preceduti da motociclette e biciclette in una festosa confusione. Il messaggio era chiaro: la stragrande maggioranza dei somali voleva che l’amministrazione dell’ex colonia tornasse all’Italia.

La risposta dei Giovani Somali

Tanto entusiasmo per l'Italia venne accolto con favore dalla commissione dell’Onu; con disappunto dalla British Military Administration. Questa ritenne che fosse necessaria una risposta, perciò fece in modo che la Lega dei Giovani Somali organizzasse una manifestazione la mattina dell’11 gennaio, sebbene i nervi di tutti fossero tesi e fosse evidente il rischioq che la situazione potesse sfuggire di mano. Non solo: per dare più vigore alla sfilata della Lega, i britannici fecero confluire a Mogadiscio soggetti fidati, estranei alla questione: somali dell’Ogaden, della Somalia britannica e del Kenya. Nello stesso tempo negarono il permesso di manifestare ai somali della Conferenza per la Somalia, che avrebbero voluto sfilare lo stesso giorno.

La mattina dell’11 gennaio i Giovani Somali confluirono nella zona più a nord della città, dove sorgeva la ex Casa del Fascio, ora quartier generale della British Military Administration. I somali della Conferenza per la Somalia, filo-italiani, si riunirono anch’essi, ma si tennero in disparte, perché non autorizzati a manifestare e perché inferiori per numero.

La zona era presidiata da un battaglione di King’s African Rifles, soldati disciplinati e già ampiamente collaudati durante la seconda guerra mondiale. Dalla loro posizione, potevano difendere il quartier generale britannico in piazza IV Novembre e nello stesso tempo osservare viale XXIV Maggio, dove si sarebbero incanalati i dimostranti, che si estendeva verso ovest, attraverso il quartiere degli italiani. Giorno dopo giorno, ecco come si svolsero i fatti: l’eccidio, i tentativi di nascondere la verità, fino all’esodo di centinaia di famiglie italiane che avevano perso tutto, anche la speranza.

11 gennaio, domenica

I Giovani Somali si mettono in marcia lungo il viale XXIV Maggio verso le 10.30. Mezz’ora più tardi, come se rispondessero a un segnale convenuto, gruppi di manifestanti rompono le file e sfoderano le armi: coltelli, bastoni e i micidiali billao, sorta di daghe lunghe mezzo metro, che fino a quel momento hanno nascosto sotto le fute; dilagano nelle vie adiacenti, sfondano i portoni e danno inizio alla mattanza degli italiani: nelle strade, nelle case, nelle botteghe.

Gli italiani sono disarmati, fucili e pistole sono stati requisiti, non possono difendersi, solo fuggire. Le grida delle prime vittime suonano come allarme per tutti gli altri. L’istinto generale è di rifugiarsi nei consueti luoghi di aggregazione della comunità italiana. In duemila trovano scampo nella vicina cattedrale della Vergine Consolata, dove si sta celebrando la messa, nell'ospedale e nell’albergo Croce del Sud, che ospita membri della Commissione quadripartita. Molti non ce la fanno: sono raggiunti e colpiti. Assieme agli italiani, vengono colpiti i somali che tentano di difenderli e quelli che sono facilmente identificati come aderenti al movimento della Conferenza, perché sventolano il tricolore.

Fin dall’inizio i gendarmi, che i britannici hanno arruolato pescando nelle file della Lega dei Giovani Somali, si uniscono agli aggressori (gli italiani racconteranno che sono stati proprio i gendarmi a dare l'avvio alla mattanza, che sono stati loro a usare le armi da fuoco, come sarà poi evidente dalle ferite delle vittime).

Assieme alle uccisioni ha inizio il saccheggio, ed è una fortuna, perché l'avidità dei beni degli italiani alla fine prevale sulla sete di sangue. Omicidi, stupri, razzie e devastazioni continuano fino a sera. Durante tutto questo tempo i King’s African Rifles e i loro ufficiali britannici rimangono a guardare, con l'eccezione di alcuni, pochi ufficiali britannici, a cui in seguito gli italiani dimostreranno riconoscenza. Ma i King’s African Rifles non alzano un dito, neppure quando un poveraccio italiano viene abbattuto a colpi di billao a pochi passi dal loro schieramento. Le bande dei Giovani Somali sanno di avere campo libero.

In tarda serata, quando non vi è più nessuno da aggredire e nulla più da saccheggiare, una camionetta munita di altoparlante percorre le vie di Mogadiscio ripetendo il messaggio seguente: «Somali, siete voi i vincitori, siete voi i vincitori», avendo cura che sia ascoltato dai membri della commissione d’inchiesta.

In tarda serata, bande di Giovani Somali lasciano Mogadiscio a bordo di autocarri carichi del bottino, che ha il sapore della «convenuta ricompensa». Tutto ciò, ancora una volta, sotto lo sguardo impassibile dei King’s African Rifles e dei loro ufficiali. Dopodiché l’autorità militare impone il coprifuoco e l’ordine viene ristabilito. I sopravvissuti affrontano la notte fuori casa, nel petto l'angoscia del domani e il dolore per le vittime, abbandonate là dove sono state uccise.

L’albergo Croce del Sud e la cattedrale. In questi luoghi molti italiani trovano scampo.

13 gennaio

Il giornali riportano un flash dell’agenzia britannica Reuter: «Quaranta manifestanti della Lega dei Giovani Somali sono stati uccisi negli scontri con gli italiani, appoggiati da somali dell’opposizione»: una narrazione che rovescia completamente la realtà dei fatti e le responsabilità, un rozzo tentativo di disinformazione che la timida diplomazia dell'Italia sconfitta faticherà a smentire.

14 gennaio, mattino

L’agenzia statunitense American Press, riprendendo un comunicato del comando britannico dal Cairo, informa che le violenze dell’11 gennaio sono costate la vita a 42 italiani e 11 somali; altri 39 italiani, 44 somali, due gendarmi, un soldato britannico e un soldato somalo sono rimasti feriti. «Gli scontri hanno avuto inizio - spiega il comunicato - quando gruppi di somali favorevoli al ritorno dell'amministrazione italiana, armati di lance, coltelli e bastoni, sono entrati in città e hanno attaccato i dimostranti della Lega, che stavano sfilando ordinatamente. Durante gli scontri, alcuni italiani avrebbero sparato colpi di arma da fuoco e lanciato granate, provocando la reazione dei dimostranti. Alcuni somali hanno approfittato della confusione per attaccare case e negozi di italiani. Gli arabi non sono stati coinvolti nei tafferugli.»

«Le autorità britanniche - prosegue la nota stampa - hanno ripreso il controllo della situazione verso le 23 imponendo il coprifuoco. Le riunioni di più di cinque persone e le manifestazione pubbliche sono state proibite. Gli italiani e i somali considerati pericolosi per l’ordine pubblico sono stati trasferiti in un campo d’internamento.»

Un tipo di Billao, sorta di daga lunga mediamente 50 centimetri, arma tradizionale dei somali.

14 gennaio, ore 12

Viene comunicato un elenco incompleto delle vittime, 51, di cui 44 identificate o identificate soltanto per cognome: Silio Santamura, Francesco Cerani, Luigi Cremonese, Giuseppe Montana, Giacinto Frascara, Paolo Frascara, Carmelo Clemente, Amleto Gardini, Domenico Resta, Antonio Resta, Giancarlo Rossato, Massimino Urraci, Ivo Balsimelli, Antonio Scaramuzzino, Gustavo Martelli, Franco Sorci, Carmelo Sorci, Achille Azan, Simeone, Limata, Griso, Pugliese, Giovanni Lamberti assieme al figlio, alla figlia, alla moglie e al padre, Sabbadin figlio, Fassini, Bolla, Critti, Tassinari, Monaco, Persi, Battistella, professor Battistella, Cioffi, Favero, Patti, Degli Eredi, Bosco, De Gasperi, Arturo Marcolini. Non è precisata l’età, spesso neppure il nome di battesimo, perciò donne e ragazzi non risultano tra i caduti. Non si conosce il numero definitivo dei somali filo-italiani uccisi; non si conosce il numero dei feriti, né le condizioni in cui essi versano. Il numero definitivo degli uccisi sarebbe stato di 54 italiani (58 secondo alcune fonti) e 14 somali; quello dei feriti di 55 italiani e 43 somali.

A distanza di quattro giorni, le notizie che giungono da Mogadiscio sono ancora parziali, evasive, contraddittorie. La reticenza dei britannici autorizza a non dar credito ai comunicati ufficiali. Che la British Military Administration cerchi di nascondere la verità, dopo aver tentato, contro ogni evidenza, di capovolgerla, trova conferma nel fatto che ai giornalisti italiani sono negati i visti per Mogadiscio.

14 gennaio, pomeriggio

Il governo italiano, presieduto da Alcide De Gasperi (1881-1954), muove i primi passi diplomatici attraverso le ambasciate. Si chiede all’amministrazione britannica di tutelare la popolazione italiana e di nominare una commissione d’inchiesta che accerti i fatti. Nel messaggio non vi è indignazione, ma quasi sottomissione.

Lo stesso giorno, un portavoce britannico dichiara che gli incidenti sono stati provocati da somali filo-italiani «istigati da stranieri interessati».

15 gennaio

Riunione a Roma del consiglio dei ministri. Carlo Sforza (1872-1952), ministro degli Esteri, riferisce dei passi diplomatici compiuti presso il governo di Londra. De Gasperi riceve i rappresentanti delle associazioni profughi dell’Africa.

A poco a poco, in Italia giungono notizie più dettagliate. Si apprende che tra i caduti vi è un giornalista, Ivo Balsimelli, direttore del Popolo di Mogadiscio.

16 gennaio

L’isolamento della comunità italiana dalla madrepatria viene interrotto dal messaggio che una signora di Mogadiscio scrive l’11 gennaio, mentre si compie la strage, e affida a un membro dell’equipaggio di un aereo della B.O.A.C. perché lo porti ai parenti all’Asmara. Il Corriere della Sera viene a conoscenza del messaggio e lo pubblica: «Siamo salvi. Tutti noi italiani siamo concentrati a gruppi nella cattedrale, nell’ospedale e nell’albergo Croce del Sud. La nostra casa non è stata ancora svaligiata. Anche la famiglia Timolini è salva. Ma la loro casa è stata completamente saccheggiata. Partiremo col primo mezzo disponibile. Forse tutti gli italiani partiranno.»

Ma lasciare la Somalia, o giungervi, è impossibile. Quaranta italiani, autorizzati a tornare in Somalia, sono arrivati il giorno prima a Mogadiscio con il piroscafo Sparta, ma non sono potuti sbarcare e sono stati dirottati a Mombasa. Altri italiani sono in viaggio sul piroscafo Toscana, il cui arrivo è previsto il 21 gennaio: allo stato delle cose, anch’essi sono destinati a proseguire per Mombasa.

Lo stesso 16 gennaio un comunicato del Foreign Office afferma che i disordini di Mogadiscio sono una conseguenza dell’arrivo in città della Commissione quadripartita. Il comunicato annuncia che lo svolgimento dei fatti e le responsabilità verranno accertati da una commissione d'inchiesta, a cui sarà invitato il console italiano a Nairobi. «La popolazione italiana di Mogadiscio - prosegue il comunicato - sta rientrando nelle proprie case, salvo gli abitanti della periferia, che restano nel campo d’internamento.»

17 gennaio

Le autorità britanniche fanno conoscere al mondo la loro ricostruzione dei fatti. In poche parole: «I disordini hanno avuto inizio il 6 gennaio con l’arrivo a Mogadiscio della commissione quadripartita. Quel giorno il partito filo-italiano ha organizzato vivaci dimostrazioni; centinaia di somali hanno percorso le strade a bordo di autocarri gridando “Viva l’Italia”. La Lega dei Giovani Somali non ha manifestato, ma ha chiesto l’autorizzazione per farlo il giorno 11. Quel giorno gli italiani hanno inviato 25 autocarri nelle città vicine per trasportare a Mogadiscio somali simpatizzanti della Conferenza per la Somalia. Altri simpatizzanti sono giunti a piedi, armati di bastoni, lance, archi e frecce. Le violenze sono scoppiate all’improvviso, sono state assalite tutte le case ove era esposta la bandiera italiana, i loro abitanti aggrediti, feriti o uccisi. La gendarmeria somala, coadiuvata dai King’s African Rifles, è intervenuta per riportare la calma.»

Monsignor Venanzio Filippini (1890-1973), vescovo francescano di Mogadiscio, invia il seguente telegramma alla segreteria del Vaticano: «Il personale missionario è incolume. La popolazione italiana è terrorizzata. Si ignora la sorte delle stazioni missionarie montane. Centinaia di italiani sono ricoverati nelle case del Vicariato. La situazione a Mogadiscio sembra migliorata.»

18 gennaio, domenica

Una messa solenne, in suffragio delle vittime, si celebra a Mogadiscio, ad Asmara e a Roma. Nella capitale italiana, la cerimonia si svolge alle ore 10 nella chiesa di Santa Maria degli Angeli alla presenza del primo ministro Alcide Degasperi, dei ministri Togni, Segni, Grassi e Corbellini, dei sottosegretari Brusasca, Andreotti, Cavalli, Badini Confalonieri, Canevari e Malvestiti, dei deputati all’assemblea Costituiente, tra cui Vittorio Emanuele Orlando. Presenti deputati e senatori dell’opposizione, il sindaco di Roma Salvatore Rebecchini, generali, ammiragli... un pienone di autorità mai visto prima. Gli esponenti politici, civili e militari della giovane democrazia italiana inaugurano così la consuetudine della «pubblica sfilata», alla conquista del consenso elettorale.

19 gennaio

Il governo italiano stanzia la somma di venti milioni in favore delle famiglie di Mogadiscio che si trovano in condizioni di bisogno.

21 gennaio

Mentre Mogadiscio torna lentamente alla normalità, giunge notizia di nuove violenze. Genale, centro del più grande comprensorio agricolo della Somalia, 30.000 ettari, è stata saccheggiata e devastata. I coltivatori italiani si sono rifugiati nella vicina Merca, sulla costa. Dopo aver spaventato gli italiani con la strage di Mogadiscio, si vuole ora cacciarli togliendo loro il lavoro, i beni, le risorse economiche. Ma queste azioni impoveriscono innanzitutto i somali: prima della guerra, la concessione agricola di Genale dava lavoro a ventimila famiglie indigene.

24 gennaio

Nonostante il numero dei morti, tutti italiani o somali filo-italiani, indichi chiaramente chi siano gli aggrediti e chi gli aggressori, il governo di Londra tenta di confermare la prima versione dei fatti, in sostanza che sono stati gli italiani a provocare gli incidenti: primo, avrebbero aizzato i somali della Conferenza per la Somalia; secondo, avrebbero guidato 25 autocarri nei dintorni di Mogadiscio per caricare qualche centinaio di somali filo-italiani armati e trasportarli in città; terzo, gli italiani avrebbero distribuito denaro ai capi tribù per assicurarsi la loro collaborazione. Donne e bambini che si trovavano presso la sede della Lega dei Giovani Somali sarebbero stati aggrediti e feriti dai gruppi filo-italiani della Conferenza per la Somalia. Unica ammissione, perché il fatto è sotto gli occhi di tutti, anche della Commissione quadripartita dell’Onu: i ladri avrebbero approfittato della confusione per svaligiare e incendiare le case degli italiani.

31 gennaio

Il governatore britannico Dorman-Smith rilascia un’intervista ad Alfio Russo, inviato speciale del Corriere della Sera.

Nell'intervista, Dorman-Smith si preoccupa di ricucire il rapporto di fiducia con la comunità italiana e di allontanare dalla Gran Bretagna la responsabilità dei fatti dell'11 gennaio. Esprime cordoglio per le vittime, giudica quanto avvenuto «episodio sporadico», afferma che la British Military Administration rafforzerà le misure di sicurezza e prevenzione, auspica che i rapporti tra italiani e britannici tornino quelli di prima.

Il governo di Londra continua a sostenere la prima ricostruzione dei fatti, come l’ha raccontata l'amministrazione militare di Mogadiscio, ma ufficiosamente ne prende le distanze e propone un compromesso: fa sapere al nostro governo che intende mantenere rapporti di amicizia e collaborazione con l'Italia e che questi devono prevalere sui difficili rapporti che in Somalia intercorrono tra la British Military Administration e la comunità italiana. Riconosce che la B.M.A. ha la responsabilità di non aver prevenuto i disordini e fermato le violenze, che d’altra parte sono state una reazione ai sentimenti di nostalgia che la comunità italiana manifesta per l’«ancien régime».

In pratica il ministro degli Esteri Carlo Sforza ottiene ben poco: la rimozione degli ufficiali che non hanno protetto gli italiani (secondo i tempi e i modi che la Gran Bretagna riterrà opportuni) e la nomina di un console italiano a Mogadiscio.

Non otterrà la condanna dei responsabili e un equo indennizzo dei danni patiti dagli italiani. Che equivarrebbe a una piena ammissione di colpa: un danno d'immagine che la Gran Bretagna, impegnata nella costituzione di un «nuovo Commonwealth», non può permettersi.

Il piroscafo Toscana, completati nel 1947 i lavori di ammodernamento che lo trasformarono in motonave, stabilì collegamenti regolari con la Somalia e consentì il rimpatrio di molti italiani. Varato a Brema nel 1923, venne radiato nel 1961 e demolito l’anno seguente.

Somalia addio

«Rimpatriare»: è questa la parola che gli italiani di Mogadiscio pronunciano più spesso dopo la strage dell’11 gennaio 1948. Tutta la comunità ne è stata colpita, direttamente o indirettamente. Perché tutti hanno perso affetti, la casa o il lavoro.

Il 15 gennaio giunge a Mogadiscio il piroscafo Sparta con una quarantina di agricoltori e commercianti italiani che tornano in Somalia. Sono partiti da Napoli prima che si verificassero i fatti dell'11 gennaio e le notizie dei disordini li raggiungono mentre navigano nel mar Rosso. Le autorità britanniche, inutilmente prudenti, negano l’autorizzato a sbarcare i passeggeri e, come abbiamo visto, «dirottano» la nave a Mombasa.

L'autorizzazione alla fine arriva: il 1° febbraio lo Sparta giunge a Mogadiscio, dove lo attendono circa duecento italiani in fuga dalla Somalia, con le valigie piene soltanto di paura e disperazione. Ma lo Sparta è una vecchia «carretta del mare», sopravvissuta alla guerra perché troppo vecchia e malandata per essere requisita dai vincitori come indennizzo. La sua capacità alberghiera è di appena cinquanta passeggeri in poche grandi cabine.

Dall’alto del ponte di comando, il capitano Pastorino vede quella folla mesta, vede i feriti e i malati, i vecchi e i bambini, che non possono essere separato dai parenti. Non c’è posto per tutti. Pastorino chiama il commissario di bordo, indica la folla sulla banchina e gli domanda: «Riusciamo in qualche modo a sistemarli tutti?» E l’altro: «Dovremo farli dormire e mangiare a turno, perché non abbiamo letti e stoviglie per tutti; dovremo fare rifornimento di generi alimentari ad Aden, perché nei frigoriferi non ce n’è abbastanza. Però li riporteremo tutti a casa».

Lo Sparta riprende il mare il 2 febbraio. Non sarà un bel viaggio. Ogni spazio libero è utilizzato per sistemare i profughi; la nave è una sorta di accampamento. Come non bastasse, nel Mediterraneo lo Sparta trova tempo di burrasca, che tormenterà e spaventerà i passeggeri fino a Messina. Una donna di 52 anni, Maria Capucci, ha un infarto e muore. Non vi sono a bordo celle frigorifere adeguate: il corpo viene avvolto nella iuta, ricoperto di calce e adagiato nella segatura. Intanto si scopre che nella stiva viaggiano due clandestini. Sono saliti a bordo a Mombasa, approfittando della poca vigilanza: senza più acqua né cibo, sono allo stremo.

Il mare grosso non permette l’ingresso nel porto di Messina. La nave è costretta a sostare al largo e solo il giorno seguente, 28 febbraio, alle ore 4 del mattino, può gettare le ancore nella rada. Sotto forti folate di scirocco, si sbarcano i clandestini e le spoglie della signora Capucci; sale a bordo la commissione d’inchiesta per interrogare i sopravvissuti, seguita da ceste di arance donate dalla città. La mattina seguente la nave giunge a Napoli, accolta dal sottosegretario agli esteri Brusasca, che porta ai profughi la solidarietà degli italiani: indumenti, viveri, medicine e un assegno di 20.000 lire per le prime necessità. Ma intanto in Somalia ci sono altri 170 italiani che hanno perso tutto e hanno deciso di rimpatriare. Si imbarcheranno sul Toscana, atteso a Mogadiscio intorno al 25 febbraio.

In Somalia non vuole restare nessuno. I rientri dei connazionali, che l’hanno lasciata a causa della guerra e che vorrebbero riprendere le loro attività, avvengono col contagocce e non compensano le partenze. Che avvengono in quattro ondate. La prima nel 1941, durante l'occupazione britannica, quando molti italiani sono internati in Kenya e Uganda; la seconda durante il 1943, quando migliaia di donne, vecchi e bambini vengono rimpatriati con le «Navi Bianche»; la terza nell’ottobre del 1946, quando per la prima volta dalla fine della guerra giunge a Mogadiscio un piroscafo italiano, il Toscana, che riporta in Italia, fra gli altri, il personale amministrativo della ex colonia; la quarta nel 1948, in seguito all’eccidio dell’11 gennaio. Alla fine del 1948 rimarranno in Somalia tremila italiani. Prima della guerra erano 19.000.

Affiorano brandelli di verità

I primi di aprile il governo britannico nomina il nuovo brigadiere generale della Somalia, generale W. Drew, e decide di stanziare una modesta somma - non un indennizzo - da devolvere alle vittime del massacro. Due ufficiali della British Military Administration, il maggiore Allen Smith, segretario politico, e il colonnello Thorne, capo della gendarmeria, vengono trasferiti. Tuttavia le deposizioni degli ufficiali britannici davanti alla «Court of inquiry», la commissione d’inchiesta presieduta dal colonnello Flaxman, che già a metà febbraio ha ultimato gli interrogatori e ha inviato a Londra le sue conclusioni, rimarranno secretate.

Trapelano soltanto alcune ammissioni. La più imbarazzante per i britannici riguarda l’esito degli esami autoptici a cui, benché in modo sommario, sono state sottoposte le vittime: sono ben 13 gli italiani raggiunti da colpi di fucile, due quelli uccisi dalle bombe a mano, armi in dotazione ai reparti della gendarmeria somala al comando del colonnello Thorne.

Il 17 maggio il generale W. Drew rilascia importanti dichiarazioni. Dice in sostanza che la Gran Bretagna non intende governare la Somalia e che il futuro della colonia verrà deciso dalle potenze vincitrici nell’interesse della popolazione; assicura che la gendarmeria somala verrà sciolta, perché non più rispondente alle necessità originarie di ordine pubblico. Al suo posto verrà istituito un nuovo servizio di ordine pubblico con agenti indigeni disarmati. Assicura il suo impegno perché la comunità italiana possa vivere in Somalia serenamente. Proprio quel giorno una concessione agricola presso Chisimaio viene attaccata da una banda di somali armati. Severino Rosso e sua moglie, agricoltori, vengono feriti gravemente, la loro abitazione viene saccheggiata.

I governi italiano e britannico hanno fretta di stabilire rapporti di amicizia. Entrambi siedono al tavolo di lavoro che darà vita alla Nato, North Atlantic Treaty Organization, il patto difensivo che verrà firmato l’anno successivo. I nemici di ieri sono gli alleati di domani. Non si vuole che i fatti di Mogadiscio possano turbare il processo di collaborazione da poco avviato.

Il tempo, come sempre, favorisce l’oblio. I giornali italiani parlano sempre di meno dell’eccidio di Mogadiscio. Nei consigli municipali, capita che qualcuno proponga, nella generale revisione della toponomastica che sempre segna un cambiamento di regime, di intitolare una strada o una piazza ai caduti dell’11 gennaio. Ma ogni tentativo cade nel vuoto: sull'eccidio di Mogadiscio è sceso il silenzio.