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Il Diritto Coloniale

colonialeGrati al Relatore, pubblichiamo: si tratta di una Relazione tenuta da un avvocato (A. Costanzo AL.)in un congresso tra colleghi. Raramente abbiamo letto una analisi scevra da pregiudizi, toni conformistici o secondo la moda, seppur intellettuale corrente, circa le caratteristiche del nostro Diritto Coloniale.

La ricerca copre il periodo dal 1915 al 1935, non tratta quindi della Legislazione Razziale successiva, che però abbiamo già detto, non trovò rigida applicazione nelle Colonie per le loro consolidate usanze, per la lontananza dalla Madrepatria e perché solo dopo un anno dalla loro approvazione scoppiò la guerra che sconvolse il Mondo:

Ordine degli Avvocati di Milano.

Convegno: “AVVOCATI MILANESI NELLA GUERRA IN AFRICA ORIENTALE ITALIANA

Milano, 5.11.2015

Relatore Avv.Alberto Costanzo

TESTO DELLA RELAZIONE SUL DIRITTO COLONIALE ITALIANO

(dal 1915 al 1935)”

 

1.

Vi propongo di provare ad osservare l'impresa coloniale italiana da un punto di vista alternativo, inconsueto. Proviamo cioè a considerare, non quella che è stata l'attività militare, bellica - a cui istintivamente si pensa subito - ma agli anni della gestione e dell'amministrazione in tempo di pace delle colonie (che rappresentano ovviamente un tempo molto più lungo rispetto ai periodi dell'attività militare), e proviamo ad accostarci allo studio di questi periodi di pace attraverso uno strumento un po' particolare che è il diritto: la legislazione dell'epoca.

E’ noto che la legislazione rappresenta una delle fonti di informazioni a disposizione del ricercatore per conoscere un certo periodo storico, un certo fenomeno storico. Esempio: molte delle nostre conoscenze sulla storia politica di Roma (come ad es. i rapporti tra Roma e i popoli barbari) le dobbiamo al fatto che il Diritto Romano è giunto fino a noi. Quindi utilizziamo il Diritto, che è una parte intrinseca del processo di colonizzazione, come lente per osservare questo fenomeno storico. Proviamo dunque a cercare di conoscere l'impresa coloniale italiana esaminando quali leggi si è data e ha dato ai territori coloniali, per disciplinare la vita nelle Colonie e per disciplinare i rapporti tra queste a la Madrepatria.

2.

Nel fare questo dobbiamo però preliminarmente capire quali furono i caratteri storici del colonialismo italiano, altrimenti diventa difficile contestualizzare le leggi che andiamo ad esaminare. Il colonialismo europeo moderno (quello delle grandi potenze: Inghilterra, Francia, ecc.) è stato un fenomeno estremamente ampio ed esteso nel tempo e nello spazio; però è possibile con un certo grado di approssimazione, delinearne i caratteri fondamentali comprendendo che, in una logica del dominio, il suo scopo è stato: prima della rivoluzione industriale ,accaparrare risorse e materie prime derubando le popolazioni indigene; e dopo la rivoluzione industriale, conquistare nuovi mercati creando spazio per le sovrapproduzioni industriali.

Noi sappiamo che un sistema economico capitalistico deve per forza crescere continuamente senza arrestarsi perché l’arresto della crescita ne comporta l’implosione ed il crollo e quindi spesso viene (o almeno veniva) detto che l’ultimo stadio dell’economia capitalistica sarebbe l’economia di guerra. Oggi sappiamo che quest’analisi non è esattissima, però, ecco, facendo per ipotesi nostra questa idea, potremmo dire che se l’economia di guerra è l’ultimo stadio dell’economia capitalistica, l’economia coloniale è il penultimo.

Lo scopo è di permettere una sovrapproduzione industriale dandole degli sbocchi, creandole dei mercati. Ora, è chiaro che con la nostra sensibilità di uomini e donne del XXI secolo non possiamo che dare un giudizio totalmente negativo di questa politica coloniale (anche se onestà intellettuale ci imporrebbe di dire: negativo il giudizio sul colonialismo, ma danni più grandi del colonialismo li ha fatti la decolonizzazione quando le potenze mondiali hanno deciso di disinteressarsi delle ex colonie dimostrando per fatti concludenti quale spirito e quali interessi le avesse portate a darsi un impero; e giudizio negativo sul colonialismo, ma giudizio ancor più negativo sul neocolonialismo che non ha nemmeno la giustificazione di un contesto culturale in cui quella politica era socialmente accettata!). Questo, dunque, il colonialismo.

Però parlando dell’Italia c’è un problema. L’Italia arriva a incominciare a pensare di darsi una espansione coloniale abbondantemente dopo la rivoluzione industriale europea, ma l’Italia non ha un’economia capitalistica, ha un’economia agricola, non ha bisogno di nuovi mercati per i suoi prodotti industriali! L’Italia ha una sola risorsa in eccesso, quella demografica: uomini, menti e braccia. 26 milioni di italiani lasciano la madrepatria nel XIX sec.

Attualmente, negli States, in Brasile ed in Argentina ci sono 64 milioni di discendenti di italiani. In Uruguay il 40% della popolazione è composta da discendenti di italiani. E’ un caso unico nella storia moderna di cui i programmi scolastici parlano ben poco, è una tragedia nazionale quasi rimossa. Ed infatti perché l’espansione coloniale nell’800 viene accettata e voluta dai Liberali e da gran parte della Sinistra? Perché si trattava di dare lavoro agli italiani, non di accontentare qualche capitalista o qualche generale!

Che le colonie italiane fossero destinate a ricevere gli operai, gli agricoltori italiani per dare loro lavoro, si ricava anche da semplici dati statistici. Se si esamina il numero di britannici, di portoghesi di francesi, di belgi trasferitisi nelle rispettive colonie, si constatano numeri sempre molto piccoli (qualche migliaio); me se si esamina il numero di italiani trasferitisi in A.O.I., le cifre si impennano e l’ordine di grandezza sono le centinaia di migliaia. Asmara era una città italiana abitata da italiani!

Se questa era, dunque, la finalità dell'impresa coloniale italiana, ci troviamo di fronte ad un fenomeno che facciamo fatica a collocare nel concetto classico di colonialismo.

3.

Allora andiamo a capire qual è l'atteggiamento dello Stato verso questo fenomeno atteggiamento che si manifesta attraverso le leggi. Dopo l’iniziale acquisizione di un territorio nella baia di Assab nel 1869, e la successiva modesta espansione di questo territorio, il primo atto ufficiale del Regio Governo risulta essere l’ordinanza del Primo Ministro e Ministro degli Esteri Benedetto Cairoli. Se noi leggiamo quest’ordinanza, troviamo una prima norma che balza all’occhio: “Art. 16.Nella baja di Assab e nell’intero territorio è rigorosamente vietata qualunque operazione connessa colla tratta degli schiavi.”. Ma come, le potenze coloniali classiche (come ad es. insegna uno storico ed africanista importante e autorevole come Alessandro Triulzi) non contrastavano la schiavitù nelle colonie, anzi spesso la favorivano!

Siamo dunque di fronte ad un primo principio ed orientamento legislativo che differenzia totalmente il nostro colonialismo da quello delle grandi potenze. E questo principio del divieto di tratta degli schiavi e della segregazione razziale verrà conservato lungo tutta la storia del diritto coloniale italiano, tanto che nel 1936 uno degli effetti dell'occupazione dell'Etiopia sarà proprio la liberazione e l'emancipazione dei Falascià, gli ebrei neri, forse l'ultimo popolo schiavo della storia moderna.

Andiamo avanti e arriviamo alla L. 5.7.1882 n. 857, la prima legge coloniale organica, detta nientemeno che “la prima carta coloniale italiana”. E qui troviamo, all’art. 3, un principio sconcertante: il principio di doppia giurisdizione, una giurisdizione che riguarda i rapporti tra cittadini italiani ed una che riguarda i rapporti tra indigeni (giudici il cadì o il tribunale sciariaitico), con conseguente adozione del principio di personalità della legge: si applica la legge italiana ai rapporti tra italiani e il diritto locale (o consuetudini locali) ai rapporti tra indigeni. Successivamente in Libia, applicando il medesimo principio che non verrà mai tradito, per gli ebrei verrà prevista corrispondentemente la giurisdizione dei tribunali rabbinici. E’, questo, un principio di civiltà giuridica clamorosamente contrastante con gli orientamenti delle potenze coloniali, che hanno sempre seguito il principio fissato dalla Court de Cassation francese che lungo tutto l’800 ha insegnato che “dove arriva il tricolore della rivoluzione lì arriva il diritto francese”, senza eccezioni.

Il principio che connota la legge del 1882 e che poi rimarrà invariato in tutta la legislazione coloniale italiana successiva non è dunque un principio tipico del colonialismo moderno. Dove affonda le sue radici? Ebbene, se esaminiamo i caratteri del nostro diritto coloniale(duplicità della giurisdizione, personalità della legge, riconoscimento delle tradizioni e del diritto locale, collaborazione dell'elemento locale nell'organizzazione statale), ben presto ci accorgiamo che si tratta di una riproposizione del diritto romano! Se per cercare di capire di più andiamo a leggere gli atti parlamentari, ed in particolare la relazione al disegno di legge da cui sarebbe poi derivata la L. 5.7.1882 n. 857, presentata alla Camera dei Deputati dal Ministro degli Esteri del Governo Depretis, il marchese Pasquale Stanislao Mancini, troviamo spiegazioni eloquentissime nelle risposte da questi date all’on. Cavalletto, illustre esponente della Destra “...noi abbiamo stimato nel disegno di legge di attribuire al Parlamento italiano il merito di aver. prescritto quale sia il trattamento a cui le popolazioni indigene hanno diritto. Dovranno essere scrupolosamente rispettate le loro credenze e pratiche religiose, le loro abitudini di famiglia, la loro stessa legislazione consuetudinaria in tutto quello che non si opponga alla morale universale(badi la Camera, che non si dice soltanto morale cristiana) e valga ad esempio l’istituzione della schiavitù, che è incompatibile con i diritti della creatura e della personalità umana.

Finanche la giurisdizione per liti e processi di esclusivo interesse degli indigeni sarà affidata ad un dottore musulmano, val quanto dire ad un Cadì. Vede dunque l’on. Cavalletto con quale larghezza d’idee l’Italia intende di condursi ad Assab: “Non con animo, non con intenzione di dominazione o conquista. ma a chiare note additando quali saranno le nostre idee nel regime coloniale”.

Queste sono le parole del marchese Pasquale Stanislao Mancini, massone anticlericale, liberale di sinistra, ministro nei governi della Sinistra storica, eminentissimo giurista in un’epoca in cui l’Italia era la culla del diritto internazionale moderno (ricordiamo ad es. inomi del conte Federico Scolopis, del prof. Augusto Pierantoni). Sicuramente uno dei più grandi Ministri degli Esteri che l’Italia ha avuto: il padre del colonialismo italiano.

Gli anni trascorrono e chiaramente le poche norme dell’ordinanza del 1880 e della legge de1882 richiedono di essere ulteriormente integrate e completate per regolare la vita nella colonia. Così si arriva ad un nuovo disegno di legge discusso nel 1903, il quale contempla un progetto estremamente ambizioso, oggi diremmo irrealizzabile: la promulgazione entro18 mesi del Codice Civile, del Codice di Procedura Civile, del Codice Penale, del Codice di Procedura Penale, del Codice di Commercio e del Codice della Navigazione con i relativi regolamenti, destinati ad avere validità nel territorio della colonia, la quale avrebbe pertanto avuta la propria autonomia ed indipendenza giuridica dalla madrepatria. Si arrivava cioè a configurare il concetto di personalità giuridica della colonia, la quale cessa di essere un territorio occupato bensì diventa un ente dotato di personalità giuridica internazionale. Ebbene, la redazione di questi codici, progetto che oggi sarebbe irrealizzabile, avvieneveramente. Viene istituita una commissione, che veramente in 18 mesi realizza questi codici, un vero corpus juris eritreo!

Ma questi codici, benché realizzati, approvati dal Parlamento, pronti per essere tradotti in arabo e in amarico, non entreranno mai in vigore: perché?

La seconda parte di questa vicenda è ancora più incredibile della prima. Il marchese Giuseppe Salvago Raggi, governatore civile dell’Eritrea, dopo avere esaminato i codici, interviene e lamenta il fatto che essi non rispettano sufficientemente il principio di personalità della legge: sono soltanto i codici metropolitani “adattati” per le colonie, e

dunque si compirebbe un’operazione imperialista, si andrebbe a “paracadutare” il diritto metropolitano sulle popolazioni indigene violando così i principi del colonialismo italiano! Le preoccupazioni del marchese Raggi vengono recepite in modo così serio che si rinuncia al progetto!

La legislazione coloniale successiva è composta da vari atti normativi che non tradiscono mai i principi originari del nostro Diritto Coloniale, ma che è ora possibile solo citare in modo esemplificativo: Una legge del 1908, per la Somalia, mantiene in vigore per gli indigeni le loro leggi e consuetudini. Un’altra del 1913, per la Libia, applica il medesimo principio e nella relazione al Re; si legge che viene “scartata la vieta teoria che la legislazione segua la bandiera e che con l’occupazione si importi nelle colonie tutto il bagaglio legislativo della metropoli”. Per le Isole dell’Egeo, leggi del 1925-1928 abrogano i codici ottomani ed affermano il principio della personalità del diritto per le Comunità ortodossa, musulmana e israelita ivi stanziate.

Medesimo principio viene ribadito per l’Eritrea con legge del 1926. Infine le ultime due leggi che sanciscono ancora, ulteriormente il principio dell’applicazione del diritto personale sono quella del 1936 per l’AOI e quella del 1934 per la Libia.

4.

Ma che cos’è questo diritto indigeno, la cui applicazione veniva riconosciuta alle popolazioni locali sia per quanto riguarda i rapporti di natura privatistica che per la materia penale? Non è uniforme nel territorio di una stessa colonia né, tanto meno, nel territorio di tutte le colonie. Il diritto indigeno nelle colonie italiane è di vario genere, tenendo conto dell’ampiezza delle stesse e delle diversità di religione e di etnia.

Uno spazio preminente lo occupa il diritto musulmano, ma non esiste “un” diritto musulmano, le scuole giuridiche variano al variare dei riti.

Vi sono i riti ortodossi: malechita (in Africa settentrionale e in Libia);anefita (nelle Isole dell’Egeo e in parte dell’AOI); sciafeita (in parte dell’AOI) anabalita, ecc.

Poi vi sono i riti “dissidenti”: sciiti, ibaditi (popolazioni berbere della Libia), ecc. Distinto dal diritto musulmano è il diritto ottomano, che è costituito dal diritto musulmano con l’aggiunta della legislazione dell’impero turco (isole dell’Egeo).

C’è poi il diritto ebraico (in Libia e nella Isole dell’Egeo).

I cittadini egei di religione cattolica applicavano il diritto canonico, quelli di religione greco-ortodossa applicavano il diritto bizantino.

Altro esempio: in Abissinia vigeva il diritto cristiano abissino, che si ricollega alla religione copta e si basa su una raccolta di canoni ecclesiastici e leggi degli imperatori romani (detta “Fetha Nagast””) compilata nel XIII sec. dal monaco alessandrino Ibn al Assal. in Eritrea ed Somalia si riscontra una così grande varietà di fonti del diritto che, ad un certo punto, l’indicazione generica del “diritto personale delle parti” si rivela non più sufficiente per chiarire quale sia il diritto applicabile, e si rendono necessarie due leggi del 1935 che soddisfano proprio questa necessità.

E questi sono solo i diritti scritti, poi si aggiungono gli usi e le consuetudini orali! Questi ordinamenti indigeni contengono una serie di istituti che sono veramente diversissimi rispetto alla nostra tradizione giuridica, e che pure dovevano essere riconosciuti ed accettati.

Ad es., nel solo diritto penale: pene speciali sconosciute al diritto italiano come l'ammenda collettiva alla tribù; oppure circostanze attenuanti, aggravanti e addirittura scriminanti secondo la tradizione locale; la maggiore età secondo lo statuto personale; indennizzi ai danneggiati senza domanda; la pena pagata al danneggiato; pene pecuniarie convertite in obbligo di lavoro di pubblica utilità; ecc.

 

5.

Per una visione un pochino più ampia della nostra legislazione coloniale, vorrei citare

almeno ancora due materie:

-La prima riguarda la tutela della fauna. In seguito alla proclamazione dell’Impero venne

promulgata una severa normativa venatoria, che prevedeva la proibizione assoluta di caccia ad alcune specie, e limitazioni per la caccia ad altre. Erano altresì proibiti l’uso di trappole e la caccia dagli automezzi. I Governatori avevano facoltà di istituire aree protette.Allo scoppio della II Guerra Mondiale erano allo studio la costituzione di una bandita di caccia nel basso Giuba per la protezione degli elefanti, la costituzione di una riserva negli Arussi per la protezione del nyala di montagna e la costituzione di una riserva nel Semien per la protezione dello stambecco nubiano. Ma, se la protezione della fauna nel territorio della colonia è già in sé un fatto inusuale, veramente eccezionale è poi la circostanza che regole così severe si applicavano ai cittadini metropolitani, mentre gli Indigeni avevano la possibilità di praticare quasi senza limitazioni la caccia tradizionale!

-La seconda materia che merita ricordare è l’Istruzione Pubblica. E’ certamente vero che il tentativo di introdurre un’istruzione gratuita di base è riuscito solo in poche aree a causa delle resistenze delle popolazioni locali, tradizionalmente diffidenti. Ma l’aspetto da rimarcare è che nelle scuole governative non dovevano essere impartiti agli allievi musulmani ed ebrei insegnamenti che contrastassero con la loro religione! Come se oggi, ad esempio, venisse evitato l’insegnamento della teoria evoluzionista agli studenti che si dichiarano cattolici integrali... impensabile!

C'è poi un’ultima questione sulla quale vorrei soffermarmi, e qui devo essere veramente molto critico verso uno storico che credo abbia reso davvero un pessimo servizio alla sua professione e alla sua materia. Esisteva tra le popolazioni dell’A.O.I. un istituto giuridico, chiamato dämòz o "nozze per mercede" e che in italiano prenderà il nome di “madamismo” o “madamato”, che consisteva in una relazione temporanea more uxorio. Era una sorta di contratto matrimoniale che vincolava i “coniugi” ad una reciprocità di obblighi e che consentiva alla donna di mantenersi usufruendo dei redditi dell’uomo, della sua casa, della sua mensa, ecc. Al termine del periodo di validità del patto, l’uomo riconduceva la donna alla famiglia d’origine e cessava tra loro ogni obbligo.

Questa convivenza, già ritenuta da Ferdinando Martini, primo Governatore dell'Eritrea, un inganno ed un sopruso nei confronti delle donne, si diffuse tra gli italiani (il più famoso dei quali fu Indro Montanelli) per la lontananza delle famiglie. Il fenomeno portò alla nascita ed al contestuale abbandono di un elevato numero di figli meticci non riconosciuti dal padre. Il fenomeno suscitò scandalo in Italia e se ne compresero i caratteri di grave violazione della dignità delle donne e dei loro diritti. Di conseguenza, il madamato venne proibito e penalmente perseguito, dal r.d.l. 19 aprile 1937 n. 880, che lo puniva con la reclusione da 1 a 5 anni. Legge giustissima, civilissima e sacrosanta.

Ora, lo storico di cui parlavo è Gianluca Gabrielli, che su una rivista prestigiosa quale “Quaderni fiorentini” scrive che la legge del 1937 ha lo scopo di combattere l'incrocio tra razze, il meticciato, con finalità razziste! Non si può che dissentire da un simile giudizio elementare un uso distorto e “ideologicamente orientato” della narrazione dei fatti storici. Certamente dalla fine degli anni ’30 subentrerà una legislazione razziale (ben nota) che stravolgerà le peculiarità del nostro diritto coloniale (e non solo di questo...), ma non si può retrodatare gli effetti di questa infausta legislazione, che ha una sua precisa collocazione

storica e temporale, agli anni precedenti, durante i quali il diritto coloniale italiano – così come il diritto italiano in generale - non fu affatto razzista!

 Albero Costanzo Avvocato (AL)