1947: Chiesa degli Eroi, sera

 chiesa

Con mamma stiamo tornando da Asmara (diciamo Asmara noi della periferia per dire il centro città, e la nostra periferia è Villaggio Paradiso) a piedi perché anche prendere l’autobus costa e noi siamo reduci dall’Italia dopo tre lunghi anni di esilio forzato per via della mancanza di medicine necessarie (chiuso il Canale di Suez durante tutto il conflitto non arrivava più nulla) alla sopravvivenza di papà. E allora via con l’ultimo viaggio delle Navi Bianche verso un’altra guerra (la “nostra” era da poco finita, finiti i bombardamenti e sirene e coprifuoco anche se con gli inglesi....), un’altra guerra che, tutto sommato, per noi che ci trovavamo in campagna (nonno possiede una fattoria in Toscana, nel Chianti) non è stata proprio terribile, ma siamo tornati in Eritrea con gli ultimi spiccioli.

Per questo, su le maniche e si ricomincia: papà fa domande a tutti per trovare un impiego e mamma ha trovato...: “fabbrica pupazzetti di stoffa, piccoli, che saranno chiusi nelle uova di Pasqua come sorpresa, grandi (ha fatto i modelli di Topolino e Minni e Pluto e Paperino e Pippo e tutti gli altri) per trastullare i bambini rimasti senza giocattoli. Così che come fece nel ‘41 quando organizzò in casa la creazione di statuine per il presepio, ha allestito una vera catena di montaggio, sempre nella stessa casa che ci ha aspettato a Villaggio Paradiso.

Lei taglia e cuce, noi ragazzine imbottiamo i pupazzi con ritagli di gomma piuma che andiamo a prendere a Campo Zuco da una signora che a sua volta aiuta il marito a ristrutturare divani e poltrone.

Questa sera è toccato a me accompagnare mamma (facciamo una volta per uno le tre sorelle ed io) fino a Corso del Re, e in quelle stradine verso Largo Somalia, vicino alla Moschea dove i negozi indiani sono una sequela, negozi di stoffe dico, che per fare pupazzi occorre proprio la stoffa e mamma trova sempre tanti scampoli da Nazmuddhin e da “sei dita”, proprio sei dita: è un signore anziano che sbuca sorridente da dietro montagne di scampoli e pezze di stoffe colorate e ha proprio sei dita. Tutti lo chiamano così e  neppure so il suo nome; è sempre elegante e spesso sulla testa sfoggia un autentico Borsalino. Ci accoglie con simpatia e mostra subito a mamma quello che ormai sa che acquisterà.

E anche oggi partite da Villaggio Paradiso verso le due, stiamo tornando a casa; abbiamo fatto il pieno del necessario per diversi giorni di lavoro: ci siamo fermate anche da Elda, al ritorno, in via Bianchini, la strada che fiancheggia la Cattedrale e finisce in viale della Regina, dove abbiamo fatto scorta di filo, qualche passamaneria per guarnire i vestiti di Minni e le giacchettine dei tre porcellini e bottoni per fare gli occhi un po’ a tutti. Scampoli anche questi e bottoni scompagnati, Elda ce li da a poco per poter rientrare nelle spese e ricavare qualcosa di più dalla vendita del pupazzo.

Quando sono pronti mamma li porta dai giocattolai e li lascia in conto deposito. Non ne rimane mai uno, piacciono e si vendono subito. Certo il negoziante ne prende la provvigione e per questo dobbiamo spendere il meno possibile compreso il biglietto dell’autobus.

Così che questa sera stiamo tornando a casa a piedi e quando siamo alla chiesa degli Eroi dove c’è il bivio a destra per l’Amba Galliano - la strada che costeggia il Mai Belà - a sinistra per Villaggio Genio, nello slargo davanti al piccolo Bar, vediamo movimento di gente, sembrano ombre che si agitano nel buio della sera, alla fioca luce gialla dei rari lampioni stradali; e immobile, distante fuori dalla carreggiata si può indovinare un calesse rovesciato e in primo piano un cingolato inglese. L’asfalto nero e lucido per una lunga striscia bagnata che parte larga da sotto l’animale e

finisce a stringersi fino alla cu-netta. Tre militari inglesi camminano e parlano nervosamente tra loro, dal bar sono usciti degli uomini che assistono immobili. E’ chiaro cosa è successo: il calesse ha avuto la peggio nello scontro con la macchina. Voglio scappare, mi pare che l’ombra nera del cavallo si muova disperatamente, prego mamma di andarcene, la supplico di passare per Amba Galliano, vuol dire diversi chilometri per un giro che a un certo punto finirà in stradine sterrate e completamente buie. Mamma cerca di trattenermi, di farmi ragionare: aspettiamo, dice, e forse se passiamo sulla sinistra... No, non calpesterò mai quel bagnato che quasi certamente è sangue. Mamma cerca di convincermi che forse è acqua del motore del cingolato. É mamma che mi prega: abbiamo fatto quasi dieci chilometri oggi e ora che ci rimane solo Viale Gabriele d’Annunzio... No, no... É l’autobus N. 3 in arrivo da Asmara che si ferma poco prima della chiesa perché non può proseguire. Saliamo: e come “nascondersi” da questa scena. Aspetteremo a bordo che si sblocchi la strada; oggi non risparmieremo il biglietto, anche se abbiamo tanto camminato e siamo proprio stanche, anche se quel biglietto che abbiamo risparmiato ci farà fare solo una fermata ai Palazzi Cafulli e ci lascerà al capolinea a pochi metri da casa, nel piazzale davanti al Bar Paradiso. Saliamo dalla porta davanti, dove gli inglesi hanno fatto scrivere “Nazionali” ma un attimo tentenniamo: nella porta di dietro c’è scritto “Indigeni”; quale la nostra? Anche noi due siamo indigene... forse avrebbero dovuto indicare: “Bianchi” e “Neri”. Sarebbe stato più facile. No?

Marisa Baratti

(Mai Taclì N. 1-2003)