1943: Sembèl, campo di concentramento

1943

Sembèl nel 2003: passati giusti 60 anni..

 Sono migliaia le persone che hanno “SCELTO” di rimpatriare con le Navi Bianche e mamma, che ne inventa sempre una – in giro nei negozi non esistono valigie da poter comprare che quelle poche rimaste dopo la chiusura del Canale di Suez e quindi impossibile l’importazione – sono andate a ruba, ha studiato e disegnato e realizzato dei sacchi letto che contengono una infinità di cose:  pare un gigantesco portafoglio che si apre in tre: uno scompartimento intero, grande come tutto il sacco,  accoglie una coperta, ben distesa  come nei portafogli si custodiscono le banconote più grandi, e poi, cerniere e ganci, anelli, fibbie, a dividere ogni tasca, grande o piccina, orizzontale e verticale. Due cinghie permettono di infilarlo nelle braccia come uno zaino. La tela color corda è simile a quella usata a confezionare le ghirbe per il trasporto dell’acqua sulla schiena dei ciucci.

Tutto materiale che giace nella selleria di nonno ferma ormai da un anno proprio per mancanza di materiale sufficiente a fabbricare valigie e selle e ghirbe.

Ora siamo a Mai Serau dove lo zio Aldo possiede un albergo, sulla strada per Addi Caieh, poco dopo Decamerè; lasciata Asmara per evitare problemi a papà da parte degli inglesi  e perché suo fratello, zio Aldo appunto, ha bisogno di aiuto per mandare avanti l’attività che comprende ristorante e bar e quindi molto impegnativa. Del resto papà è anche rimasto senza lavoro.

Mai Serau distante circa un’ottantina di km. da Asmara, non è l’ideale per procurarsi il materiale e riportare poi in Asmara i sacchi letto già pronti. Ma si mobilitano i ragazzi più “grandi” :  mia sorella Nelly e i miei cugini Jole e Mario. Prendono la corriera la mattina che passa spesso e fa naturalmente sosta davanti l’albergo e tornano la sera: vanno con i sacchi già pronti e tornano con nuovo materiale. Tutto scambiato nell’emporio di nonno in via Martini. E’ un vero laboratorio, come lo sa organizzare solo mamma: ci lavoriamo tutti, le mie sorelle, mia zia e pure papà dà una mano. E si prende un bel ritmo, via sempre più veloci e precisi, ognuno con la sua incombenza, facendo anche a gara. Una vecchia Singer che cucirebbe pure il ferro, forbici dentate, stampafori, chiodi rapidi, fibbie, bottoni a pressione. Se ne “sfornano” a dozzine, di varie misure. Ma seguitano a richiederli perche veramente sono migliaia le persone in partenza che devono organizzarsi.

Poi capita che tra queste migliaia compaiono pure i nostri nomi: papà si ammala e ha bisogno di medicine obbligatorie che è impossibile trovare in Asmara. Non c’è scelta: i nostri nomi sono in coda per imbarcarsi verso l’Italia.

I sacchi letto questa volta sono su rigorosa misura: due adulti, due un po’ più piccoli e due per bambini. Uno dei quali non può contenere neppure la coperta ma tanta tanta roba necessaria nelle raddoppiate e ben studiate tasche. Sono gli ultimi della nostra piccola fabbrica, e perché ci obbligano a trasferirci nel campo di concentramento di Sembèl e perché è finito il materiale necessario e ci si sarebbe per forza dovuti fermare.

Le baracche del campo di Sembèl  sono delle camerate e ci dobbiamo separare da papà ma di giorno possiamo anche stare insieme. E uscire in certe ore della mattina, andare in Asmara (a due passi del resto) con tanto di permessi firmati. Noi dobbiamo liberarci della casa di Villaggio Paradiso, quella che abitavamo prima di trasferirci a Mai Serau, chiudere, trasportare la nostra roba giù nella cantina finchè c’è posto certo, con le cose più care, le cose di una vita per i genitori: dai regali di nozze nel 1926 al giocattolo che ognuna di noi non vuole abbandonare  perché torneremo appena possibile, quando tutto sarà finito, ossia la guerra. Pochissimi mobili, quelli che si riesce ad accatastare e il resto si cerca di venderlo.

E’ tardi questa mattina quando rientriamo di corsa perché gli inglesi  strillano e brandiscono come fosse un’arma pronta a colpirti, frustini di cuoio rigido e duro che usano per incitare i cavalli, e non si vergognano proprio, specie le donne, le più accanite, ad usarli.

Sul grande cancello di filo di ferro spinato ci sta aspettando Lemlem, la balia della mia mamma. Da sempre (ha allattato mamma rimasta orfana a soli 20 giorni) è stata presente nelle nostre vite. A casa di nonno ci va ogni domenica, ora non la vediamo da quando siamo a Mai Serau. Baci e anche tanta voglia di piangere da tutti noi: come ha fatto a trovarci e come fare tanta strada…i suoi piedi sempre scalzi…E’ un momento veloce chè dobbiamo  varcare quel cancello; una volta però entrati ci fermiamo a guardarla allontanare. Lei non si volta, il passo svelto, la figura imprecisa sotto la futa sempre immacolata che l’avvolge, i calcagni rossi di hennè escono uno alla volta dal fondo del vestito lungo quasi a coprirli, veloci, cadenzati…”Oh Mem…” dice qualcosa dentro me, è il vezzeggiativo del suo nome: “Mem…dove vai, perché non ti volti? Dove stai andando? Stai piangendo? Quando ci rivedremo?” e noto dai movimenti del corpo fasciato con cura nella futa, che è ingrassata: “Oh Mem, stai diventando vecchia?” No, non è possibile, lei sarà sempre così e ci aspetterà da qualche parte come ha fatto oggi, quando saremo di ritorno. Ma non sarà così, questa è l’ultima volta che la vedrò…e si allontana sempre più piccola fino a sparire sulla terra rossa di Sembèl.

Stasera il grande piazzale si è riempito di camion inglesi e ognuno raccoglie la sua roba (poca, non possiamo portare più di poco), sacchi letto sulle spalle e non siamo solo noi della famiglia, altre dozzine di persone che lo hanno comprato, lo hanno indossato allo stesso modo, piene le tasche e ogni più piccolo spazio studiato da mamma. Le navi sono a Massaua per il terzo e ultimo viaggio e ci aspettano: sono la Giulio Cesare e la Caio Duilio, noi dobbiamo imbarcarci sulla prima.

Saliamo sui camion che ci porteranno alla stazione di Asmara dove ci aspettano i carri bestiame agganciati a una locomotiva che impiegherà tutta la notte per raggiungere Massaua. Aiutati a vicenda prendiamo posto su delle panche lungo tutto il cassone, qualcuno coperto da un telone, altri scoperti. Per noi bambini è un divertimento anche se evito di guardare in faccia mamma e papà: per loro non è certo un’avventura. Sono seduta accanto a mia sorella Silvana e sono l’ultima della famiglia in fila, accanto una donna alta e bionda, giovane, vestita di nero. E piange. Piange senza ritegno, e quelle lacrime che devono essere bollenti sulle guance magre e arrossate, mi gelano l’anima. Tutti i presenti evitano di guardarla, per rispetto, come non si accorgessero. Ma ognuno sa chi è: sono tanti e tanti giorni che viviamo al campo e lei in mezzo a noi. Torna da sola in Italia dopo cinque anni d’Africa dove è arrivata sposina con il marito. Ma lui ora non c’è più: è sparito in fondo al mare della Baia di s.Lucia insieme al piroscafo Nova Scotia, silurata da un sommergibile tedesco e affondata in sei minuti dopo aver preso fuoco. Questo raccontano tutti: era un prigioniero di guerra, uno dei tanti, rimasto al Forte Baldissera dopo un rastrellamento. Poi, nel suo destino c’era un biglietto di viaggio, a novembre dello scorso anno era stato imbarcato sul  Nova Scotia, un biglietto esteso a centinaia di prigionieri italiani assegnati in altri campi di concentramento in sud Africa.

Io capisco poco di queste cose, sento solo il contatto del corpo della giovane donna, i singhiozzi che la fanno sobbalzare. Nessuno parla, c’è una donna anziana, scura di pelle, seduta dall’altro lato che le accarezza i capelli e sussurra qualcosa, forse prega. Il mio entusiasmo bambino per quell’avventura che sta iniziando è lacerato da una grande tristezza che neppure so cosa sia: è una grande paura che mi stringe lo stomaco. Sento anche io un fiotto di lacrime che mi sale dall’anima e mi fa pungere gli occhi; li stringo perché non esca uno zampillo: ho l’impressione di essere una fontana che sgorga lacrime salate, caldissime. Le sento infatti scendere sulla faccia, ma non è uno zampillo, scendono lente e le asciugo con il dorso di una mano. Perché piango? Mi domando… e mi rispondo che piango per Giulio, il mio bambolotto che ho dovuto lasciare in cantina, avvolto in una copertina di lana da me stessa lavorata, fatta usando come ferri da calza, delle lunghissime e appuntite spine di acacia - a Mai Serau le acacie spinose sono in ogni dove. Ecco perché piango, mi dico. Per me, ancora, il dolore è questo. E l’immagine di Lemlem che svanisce lontana, senza voltarsi, i calcagni che vanno e vengono dall’orlo della futa che la copre tutta, dal capo a sfiorare la terra rossa, come fosse già un fantasma. Lemlem…

Marisa Baratti