“GLI ANNI CHE PASSANO”

 

“Ma gli Inglesi, Gabriella,  gli Inglesi...”

 

Finisco ora di leggere questo libro bellissimo che ci ricorda la vita in Eritrea, nei tempi che furono, con tutto quello che di “meraviglioso” essa ci permise di godere.  E non solo…. Le verità sulla nostra presenza in quella terra, a livello personale, politico ed amministrativo, ne fanno in tante sue parti una testimonianza importantissima in contrasto evidente con quello che attualmente viene detto e scritto (Del Boca, La Banca,  Lucarelli e Co.) e che ha finito per costituire l’idea comune e negativa dei nostri connazionali sull’Italia in Africa. Fra i tanti esempi un “capitolo” sempre molto contestato: l’istruzione agli Eritrei.  Gabriella scrive a pagina 19: “gli Eritrei sotto il governo coloniale italiano erano andati a scuola, avevano imparato un mestiere…” “le scuole degli eritrei nel 1937 erano 21…”   (108).  E’ vero, aggiungo io, che si trattava di scuole elementari e di istituti di avviamento professionale.  Ma è anche vero, e pochi lo sanno, che esisteva un progetto in base al quale gli Eritrei avrebbero potuto accedere anche agli studi superiori.  Ma il progetto cadde nel nulla a causa della nostra sconfitta e della fine dell’amministrazione italiana. Da questa saggia amministrazione era derivata l’evoluzione sociale dei nativi, ed il benessere economico di cui godevano tutti, Eritrei, Italiani e stranieri. A ciò vorrei aggiungere la fraterna convivenza tra Italiani ed Eritrei, gli amori e le unioni che ne derivarono e che non furono proibite, come asserisce l’autrice (p. 94) se non a cominciare nel 1938 con le disgraziate leggi razziali. Ne fa fede il grande numero di meticci che nel 1948-49 erano calcolati addirittura a 15.000, nonché il” fenomeno” del cosiddetto “madamismo” ossia il concubinaggio tra eritree ed italiani diffuso anche tra militari e funzionari ad alto livello da cui nacquero e si svilupparono famose famiglie di italo-eritrei come quelle dei Pollera e dei Silla, le prime due che mi vengono alla mente.

Ma non è questo l’argomento principale che voglio contestare, bensì il periodo di occupazione (o amministrazione) inglese dell’Eritrea.

Da quel che scrive Gabriella Gasparini, pare che in Eritrea si vivesse una vera e propria “pax britannica”. E’ vero che nei centri principali la vita sociale, soprattutto ad un certo livello, era rinata. E’ vero che alcune industrie prosperavano e che le scuole in genere funzionavano regolarmente. Ma è anche vero che il terrorismo anti-italiano, voluto, organizzato e finanziato dagli inglesi era iniziato nel 1941 ed aveva avuto il suo culmine negli anni tra il 1947 e il 1950, in piena amministrazione britannica. Le distruzioni, i saccheggi, gli orrendi delitti avvenivano ad opera, si, degli scifta, come dice anche l’autrice, ma non dal 1952, con la fine dell’amministrazione britannica, come sostiene lei (p.44). Fu proprio in quella circostanza che i signori inglesi concessero agli sciftà un’amnistia generale che permise a molti di loro di tornare al loro paese di origine, l’Etiopia. Quei criminali non servivano più! E che se ne fossero serviti gli occupanti è dimostrato anche dal fatto che, malgrado questi disponessero di un’imponente forza militare, non “riuscirono” mai a sgominare quelle bande di rinnegati. E poi questi ultimi dove trovavano le armi moderne in loro possesso? Andavano a comprarle all’estero? ! !

 

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L’agricoltore Stefano Manda, torturato, evirato ed ucciso nella sua concessione al km. 12 della rotabile Nefasit-Decamerè, da una banda di Sciftà, l’8 maggio 1950. (da Rita Di Meglio, dall’archivio fotografico del Dott. V. Di Meglio)

 

Da tener presente, inoltre, che si ovviava a queste limitazioni facendo accedere gli Eritrei agli studi superiori nei nostri istituti religiosi, come il Comboni, finanziati dal governo italiano. Un’importante testimonianza, in questo senso, è quella del compianto amico Lillo Mingolla, che l’autrice conosce bene perché partecipò come lei ad uno spettacolo della  “Goliardica”. La conservo con cura insieme a tantissime altre.

I prigionieri di guerra (p.40)

Erano considerati tali anche inermi civili italiani, rastrellati ed inviati nei campi di concentramento in Eritrea e nelle colonie inglesi. Tristemente famosi quelli del forte di Baldisserra, ad Asmara, e quello di Massaua, ove la vita non era certo delle più idilliache! Che gli Inglesi avessero condotto degli interrogatori per sapere chi poteva essere loro utile e liberarlo, riguardava forse qualcuno che probabilmente conosceva l’inglese, come il padre dell’autrice. Ma gli altri? Ne scriverò altrove.

I campi di concentramento nelle colonie britanniche. E’ vero che molti prigionieri furono usati per lavorare nelle aziende create dai coloni inglesi. Ma non perché “vi trovarono sistemazione” (pag. 40). E’ vero invece che quei prigionieri vi lavoravano di giorno, senza retribuzione, per tornare di sera nelle loro prigioni, circondate da altissimi recinti di filo spinato ove montavano di guardia soldati armati fino ai denti, pronti a sparare e ad uccidere al primo tentativo di fuga o di ribellione.  Senza parlare delle umiliazioni e dei maltrattamenti.

Mi dispiace aver fatto queste precisazioni che certo rincresceranno all’autrice. Ella senza dubbio ha scritto in buonafede, ma con ricordi resi più sbiaditi dal passare del tempo e dal sovrapporsi di altri in periodi da lei vissuti con datori di lavoro (gli Inglesi) gentili e forse affettuosi verso una giovane donna intelligente, svelta, preparata e bella. Dove avrebbero trovato una così in tutta l’Eritrea? Ma, per tornare alle mie “precisazioni”.  Se avessi taciuto sarebbe stato come calpestare il ricordo di tanti martiri italiani e di tantissimi eritrei barbaramente uccisi per volere e connivenza del freddo e cinico occupante britannico.  Tacere sarebbe stato come calpestare il ricordo di tanto lavoro e di tanti sacrifici compiuti in anni ed anni dai nostri connazionali per creare aziende agricole, industrie, miniere e via dicendo, distrutte per lo stesso cinico volere degli occupanti e per ignoranza e stupidità di quei nativi che avrebbero dovuto invece preservarli in vista di un loro futuro migliore. E come dimenticare mio padre, Dr. Vincenzo Di Meglio, presidente del comitato rappresentativo degli Italiani in Eritrea (C.R.I.E.) che, in quei drammatici periodi, a costo della propria vita, lottò coraggiosamente e instancabilmente per ottenere dalle autorità responsabili in Italia e alle Nazioni Unite l’adozione di misure atte a reprimere la delittuosa attività dei terroristi? Purtroppo senza riuscirvi!

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UINA - 21 maggio 1950 - Ecco un aspetto tragico dei vandalismi degli scifta: tremila piante di agrumi dell’aziendaagricola di Vincenzo Marino tagliate. Il lavoro di anni annientato in poche ore. (Candido)

 

 

Dimenticare mio padre sarebbe far torto alla sua memoria ancora viva tra tutti quei connazionali che vissero, non con gli occhi bendati, quegli anni difficili, e tra i loro figli.  La storia è questa e non si può cancellare. Del resto le mie affermazioni sono basate su documenti ineccepibili in mio possesso e non “per sentito dire”. Ma vorrei tornare al contenuto del libro in questione riguardante la vita personale, le aspirazioni, i dolori, le sensazioni di Gabriella Gasparini. Sono queste, secondo me, le parti più belle che hanno conquistato la mia stima e la mia ammirazione per un’amica forte e coraggiosa conosciuta tardi, ma non per questo meno cara.

E con ciò, affettuosi saluti a Marcello, Wania e a tutti i maitaclisti.

Rita Di Meglio

 

(Mai Taclì N. 4-2009)