Selaclacà: i Quattro Cavalieri dell’Apocalisse c’erano tutti!

s1Centro abitato a circa duecento quindici chilometri d’Asmara ad ovest di Axum, sulla direttrice per Gondar comincia ad avere una certa importanza a partire dal 1935 come avamposto e tappa delle nostre truppe in marcia verso Gondar, durante la seconda guerra d’Etiopia. Ancora tre, quattro anni dopo conserva caratteristiche di presidio militare tanto era vivo e doloroso, in zona, il ricordo di questa guerra.
Da Selaclacà a Dembeguinà, sulla stessa direttrice si estende a sud una zona, delimitata per un lungo tratto dal fiume Tacazzè, che costituì una barriera durante quel conflitto, dove avvennero combattimenti cruenti passati alla Storia con il nome di “Battaglia dello Scirè” mentre l’occupazione fino ad Axum era stata effettuata senza incontrare notevoli resistenze.
I combattenti di parte italiana erano al comando del gen. Maravigna, mentre gli Etiopi, a quello di Ras Immirù. La vittoria italiana consenti di attestarsi sul fiume ed aprì la strada per Gondar che conquistata da Starace concluse la guerra almeno su quel versante.
Ancora nel 1938/1940 un presidio stabile di Militi è presente ed opera in zona ma molte le inizia-tive a carattere civile prendono sviluppo e portano notevole conforto alla popolazione locale. Nasce dall’epoca la fama di Selaclacà sanitaria, sede di ospedali di zona, centro di attrazione di medici e sanitari.
Il milite Gaetano De Marco che abbiamo già conosciuto per il suo racconto: “Una operazione di Polizia Coloniale” pubblicato sul nostro Mai Taclì (n.5 del 2011) fece parte di quel presidio ed ha voluto lasciarci anche quest’altra testimonianza che riporto alla lettera senza correzione alcuna, nel rispetto della sua sincerità, dell’entusiasmo e non ultimo per la sua veneranda età. Quando la si leg-gerà De Marco non sarà più tra noi:

s2Selaclacà è un meraviglioso paesino che durante il periodo imperiale venne valorizzato attraverso le opere italiane di quell’epoca Il nostro accampamento era adagiato su una modesta altura dove aveva soggiornato la divisione della Milizia “21 Aprile”. Alle nostre spalle vi era un terreno collinoso rivestito di ogni genere di alberi ed altro verde. Nella parte bassa si scorgeva una vasta pianura verdeg- Gaetano De Marco giante e piena di piante di vario tipo.
Noi approdammo in detto sito nel 1940 ove trovammo una cittadina operante e benefica. Guar-dando al lato destro (lì) era stato costruito il più grande lebbrosario del mondo di cui (ne) parlerò in seguito. In basso di quanto ho detto sopra, era (già) stato costruito un enorme “Dopolavoro” ove gli autisti di passaggio trovavano riposo e refrigerio. Detto edificio mi ricorda, in parte, la costruzione e lo stile del “Palazzo dei Marescialli” in Roma. (1)
L’Impero ancóra da poco conquistato aveva posto le (sue) attenzioni su quanto ho detto nel titolo (Selaclacà) essendo nei territori sottoposti alla nostra sovranità.
Regnava sovrana la lebbra che venne aggredita dalla nostra Sanità in maniera radicale. Vennero raccolti in tutto il territorio, a noi sottoposto, i colpiti dalla mortale malattia ricoverandoli nel lebbrosario ormai (già) funzionante (di Selaclacà) che ormai era in piena attività sanitaria.

In brevissimo tempo dall’Italia arrivarono i migliori specialisti della malattia (sopra descritta). Assieme a loro arrivarono una infinità di medicinali speciali e delle macchine speciali (attrezzature specifiche), avveniristiche che a quell’epoca non esistevano nel (resto del) mondo Nel frattempo le abitazioni, dei colpiti dal male, vennero disinfettate accuratamente e i familiari seguiti con attenzione dalle Autorità Sanitarie. (2)
Il nostro compito (di Militi) era di sorvegliare, dal muro di cinta del lebbrosario, tutto il com-plesso. Anche le (nostre) garitte venivano disinfettate con calce viva ed altri disinfettanti.
Ogni giorno tutto il complesso ospedaliero veniva disinfettato dalle squadre addette, fornite di pompe a spalla con le quali veniva spruzzato medicinali e disinfettanti, dappertutto. Il personale addetto era vestito tutto di bianco, ciascuno con le mascherine. Il lebbrosario –unico nell’Impero ma molto attrezzato poteva ospitare diverse centinaia di persone ed aveva tutto il personale necessario.
Noi (militi) dal muro di cinta e dalle nostre garitte assistevamo ogni giorno ed ogni notte (che)qualche poveretto(che) veniva portato all’obitorio perché era finita la sua corsa verso la sal-vezza. Tutti gli altri malati venivano accuratamente curati e sorvegliati ventiquattro ore su venti-quattro. Certamente che assistere a tali mansioni sia da parte nostra (la sorveglianza) che dai medici (le cure) erano espletate con amoroso sacrificio. Alcuni (pazienti) miracolosamente si salvavano dal tremendo morbo, mettendoli in uscita ed accompagnati alle loro famiglie e così continuava l’opera affettuosa dei nostri medici. (3)
Immerso nell’immensa pianura al di là della strada vi era un muretto a secco con un cancelletto di ferro arrugginito (che recingeva un area) ove riposavano un centinaio di soldati britannici. Non so in quale battaglia perirono, a quanto si diceva nel 1870. (4)
Come ho detto prima, ai piedi del nostro accampamento del lebbrosario, in pianura (si ergeva) il meraviglioso Dopolavoro, bellissimo edificio che a mio parere rassomiglia grosso modo al Palazzo dei Marescialli in Roma, oggi sede del Consiglio Superiore della Magistratura in Piazza Indipen-denza.
Detto edificio era fornito di tutto il necessario per gli autisti che transitavano da Massaua ad Addis Abeba (in realtà: Gondar) in detto locale vi erano sistemati tutti i servizi igienici, con molte docce ed inoltre vi era un grandissimo bar e ristorante che fornivano ogni ben di Dio ai transitanti. Vi erano locali per poter riposare e ancora con tutti i mezzi di conforto che ad uomini stanchi erano necessari.
Nella facciata principale (di detto edificio, erano inseriti) due enormi Fasci littori che raggiun-gevano l’altezza dell’edificio, al centro tra di essi spiccava la scritta, a caratteri cubitali:” O.N.F. Dopolavoro”. Quel posto di ristoro per gli autisti di transito era un’oasi, una salvezza ed un sollievo per le centinaia di chilometri passate (percorsi) al volante sotto il sole cocente. (5)
Quando la bionda Albione occupò l’Impero, la prima cosa che fece liberò tutti i lebbrosi (col ri-schi di) (ad) infettare le loro famiglie di nuovo, facendo (loro) capire che l’Italia aveva tolto (loro) la libertà e l’affetto delle loro famiglie. Subito diedero mano allo smantellamento e smontaggio delle apparecchiature sanitarie e il tutto fu spedito in Inghilterra (o in qualche altra loro colonia). Così come fecero con la teleferica che collegava Massaua ad Asmara (ma questa è tutto un’altra storia che comunque De Marco cita tanto per rimarcare quale era l’interesse degli Inglesi occupanti verso quelle Terre, a chiusura della sua testimonianza). (6)
Ma ritorniamo a Selaclacà e a riconsiderare quei tempi e quei luoghi. Già nel 1938 a soli due anni dalla battaglia dello Scirè il Pase vedeva sorgere quello che doveva essere il centro italiano: spaccio, ristorante, posta, telefono e telegrafo, era già in costruzione un grande lebbrosario a cura dell’Ordine di Malta, riporta la guida dell’A.O.I del 1938, ma molto più probabilmente a cura dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro (resta da appurare!). Il nucleo indigeno chiamato anche Edaga Sunnì restava situato a nord-est, dietro una collina. Una foto della posa della prima pietra la si può vedere in rete.
I Cavalieri dell’Apocalisse ci passarono tutti: quello Rosso “La Guerra” tra gli Inglesi e il Negus Teodoro che li aveva provocati (1868), le due guerre d’Etiopia mosse dall’Italia (1894 e 1935) la Seconda Guerra Mondiale e l’occupazione Inglese (1941); quello Bianco “La Conquista” perché dopo ogni guerra seguì una conquista e un nuovo riassetto; quello Nero “La Carestia” perché quando si parla di fame in Africa, purtroppo, non si sbaglia mai; infine quello Verde “La Pestilenza e la Morte”.
Almeno contro questo ultimo Cavaliere gli Italiani, appena scesi da cavallo loro stessi, si sono battuti, come ci racconta De Marco, con grande impegno.
Ma rileggiamo il testo di De Marco: (1) Egli descrive con grande fedeltà ed acuto spirito d’osservazione, il luogo cosi come lo si legge da qualsiasi guida dell’epoca, a soli pochi anni dall’occupazione trova una cittadina che va ulteriormente strutturandosi ed attrezzandosi di ciò che narrerà in seguito rimanendo colpito anche dalla bellezza architettonica dell’edificio del Dopolavoro. Chissà se ancóra esiste o se rintracciabile dalle sue seppur monumentali rovine.
Oltre che base logistica tra Adua- Axum e Gondar, come città sanitaria, caratteristica che, da al-lora conserverà per sempre. Come mai tanti ammalati di lebbra? Forse speravano nel miracolo e stavano vicino ai luoghi santi di Axum? Certo che in questa città non li volevano l’Etiopia conside-rava la lebbra una malattia incurabile, segregava i malati, le loro famiglie, creava comunità di miseri che vivevano di elemosine e dovevano segnalare i loro spostamenti con il suono di campanelle. Per fortuna loro, il progresso dei tempi, ormai moderni, cancellava questo retaggio medievale.
Ci narra poi (2) della scelta di costruire l’ospedale dell’arrivo, dall’Italia delle attrezzature e dei medici e dell’opera di prevenzione effettuata sui familiari degli ammalati. (3) Come l’ospedale fosse militarizzato, cosa che non ci stupisce affatto sapendo che all’epoca gli Abissini non lasciavano soli i loro parenti, spesso compromettendo le nostre cure. Lo sanno bene le prime generazioni dei nostri medici che in quelle terre operarono e che erano costretti ad avvalersi della Polizia per impedire ai perenti dei pazienti di portare cibi esotici anche a chi era stato appena operato, in tutti gli ospedali civili dove operarono.
Ma ciò diede lo spunto alla propaganda Inglese che lo fece passare come un campo di concen-tramento. Come non fare un paragone con le immagini che oggi ci descrivono l’ebola! come già al-lora si adottassero procedure di profilassi che ancora oggi, ben settantacinque anni dopo, gli Africani considerano d’avanguardia.
Fedele poi la descrizione del cimitero militare britannico, (4) così proprio come lo si può vedere da un’immagine in rete collegata alle ricerche su “Selaclacà” non può essere altro che di caduti della Battaglia di Magdala del 1868 dove perse la vita il Negus Teodoro, vittima suicida di un’azione punitiva Inglese mossa dall’India dal gen. Robert Napier; azione punitiva che il Negus stesso aveva provocato.
Quando ci descrive (5) invece l’edificio del Dopolavoro, oltre alla manifesta ammirazione verso l’architettura, traspare l’orgoglio e la soddisfazione di un semplice milite verso l’attenzione che il Regime poneva per le persone comuni che tanti sacrifici era loro richiesto di dover sopportare.
De Marco intravvede la fine di tutto (6), di ogni nostra iniziativa, l’inizio della cancellazione dei ricordi, la dannazione della memoria, la reinscrizione della Storia quando una potenza vincitrice smantella un ospedale in una zona che ne aveva tanto bisogno, allora tutto può succedere. Far passa-re per campo di concentramento un ospedale, per togliere risorse ad una popolazione civile locale, è un’azione che si qualifica da sola. Così che i Quattro Cavalieri dell’Apocalisse possano riprendere nuovamente, a scorrazzare.
Grazie De Marco, fossero stati in tanti ad avere il tuo spirito d’osservazione ed a prendere carta e penna e tramandare ai posteri quanto avete visto e capito!

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LA VERITA VI (CI) FARA’ LIBERI.
Rivalta di Torino lì, gennaio ’15.
Cristoforo Barberi.