Edda Caldiron

L’AVVENTURA AFRICANA

per lasciare un segno a chi rimane

 

PARTE SECONDA

 

Il ritorno

 Finalmente, dopo tre mesi di prigionia, ci venne dato l’ordine di tornare in Italia: era il 26 giugno 1943. In realtà la nostra fu la terza, e ultima, missione prevista dagli inglesi per il ritorno in Patria; la prima avvenne tra marzo e giugno 1942 e la seconda tra settembre 1942 e gennaio 1943.

La nostra missione di ritorno fu “naturalmente” la più tragica, si svolse infatti dopo la disfatta delle colonie italiane in Africa e lo sbarco delle forze alleate in Sicilia.

Ci vennero assegnate le navi gemelle Vulcania e Saturnia: sui pennoni principali sventolavano grandi bandiere tricolori con lo stemma dei Savoia, che a noi italiani fecero allargare il cuore. Le due grandi navi vennero completamente dipinte di bianco (furono infatti definite le “Navi Bianche”), caratterizzate da quattro grandi croci rosse che di notte venivano illuminate da speciali proiettori di grande potenza.

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La nave Vulcania

 Prima di essere imbarcati, noi tutti fummo chiusi per ben dodici ore in una baracca, fummo perquisiti uno per uno e furono perquisite anche le valigie; non si potevano portare più di venticinque kg a testa di indumenti, nessun documento né gioielli, solo poche banconote, non ricordo esattamente quante, ma sicuramente poche, tanto che la mamma protestò. Fortunatamente riuscii a nascondere all’interno di una cintura imbottita africana che mia madre indossava abitualmente, un importantissimo documento che attestava i meriti di lavoro di mio padre (documento di cui parlerò più avanti) che non venne mai trovato e si rivelò fondamentale in Italia per ottenere la pensione di papà, ricevuta comunque con incredibile ritardo!

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 L’unica foto di  Maria Gabriella

 Cinque anni in Africa erano chiusi in quelle quattro valigie. Si lasciava quel paese che ci aveva dato serenità e benessere e si partiva per tornare in Italia, un paese in guerra e in condizioni tremende di distruzione. Nel cuore c’era il dolore per la perdita di nostro padre e per l’obbligato abbandono dei due fratelli maggiori, e soprattutto l’incertezza del domani che tanto ci angosciava.

Ci caricarono sulle camionette, circondate da truppe inglesi che ci dividevano da una piccola folla di prigionieri militari italiani, e fummo condotti a Massaua per l’imbarco.

Ho ancora impresso nella mente il bellissimo e coraggioso episodio che vide il nostro amico Francesco liberarsi, farsi largo tra le persone e salire sulla camionetta che mi trasportava per farmi il baciamano e poi scappare di corsa tra le proteste degli inglesi.

Saliti a bordo a me e alla mamma vennero assegnate inizialmente due cuccette a castello in un salone enorme, originariamente adibito a sala da ballo. Questa sala era condivisa con tutti gli altri prigionieri e le cuccette erano allineate in file da quattro-cinque letti. Per cercare di mantenere un minimo di privacy le persone appendevano i propri abiti ai bordi dei letti superiori.

Mia madre fu contrariata da tutto questo, anche perché si sarebbe trovata in difficoltà, vista la sua statura, anche solo a raggiungere la cuccetta che era collocata piuttosto in alto. Decise dunque, con la sua solita calma, di rivolgersi al capitano inglese della nave e riuscì incredibilmente ad ottenere una cabina per noi due sole.

Ad Ulisse e Tonino invece, furono assegnati due letti sopracoperta, in quanto per regolamento i ragazzi dovevano essere divisi dalle donne.

La guerra ci bloccò per ben tre giorni al porto di Massaua, sotto il sole cocente a quaranta, quarantacinque gradi.

Le fiancate della nave erano roventi a tal punto che era impensabile appoggiarsi alle ringhiere senza ustionarsi (lo provai sulla mia pelle, scottandomi leggermente le braccia).

Alcune persone furono vittime di colpi di calore con svenimenti e addirittura alcuni ne morirono.

Anche mia madre, già debilitata dai tanti dispiaceri e preoccupazioni, più volte fu colta da malore e dovetti portarla al pronto soccorso del reparto ospedale dove si trovavano tre ambulatori, due sale operatorie e una sala parto.

Finalmente venne dato il permesso di salpare e la leggera brezza fresca sulla nave in movimento ci diede un po’ di sollievo.

Era il 29 giugno del 1943 e la “nave bianca” Vulcania si accingeva a circumnavigare l’Africa: il Canale di Suez infatti era chiuso e quindi avremmo dovuto oltrepassare per ben due volte l’equatore, con un solo obiettivo e una sola meta: l’Italia. Il viaggio di ritorno durò ben quarantacinque giorni. A ripensarci oggi, a più di mezzo secolo, vedo quel viaggio come una grande avventura colma di imprevisti, emozioni e tremendi pericoli dei quali però non mi rendevo pienamente conto data la mia giovane età.

Passammo il canale di Mozambico nell’Oceano Indiano e fu, per noi e per molti altri a bordo, un momento molto forte e commovente: gettammo in mare, tra le lacrime, corone di fiori in memoria dei caduti del “Nova Scotia”.

Sorvegliati giorno e notte dagli inglesi, continuava il nostro viaggio tra notizie vaghe e incerte su quello che avremmo trovato in Italia.

Diverse persone furono colpite dal mal di mare, dal quale io mi salvai, inconsapevolmente, mangiando quantità incredibili di mele: ignoravo infatti l’effetto terapeutico che avevano su tale disturbo.

Ne recuperavo un po’ da tutti: dalla zia Ada, stressata dalla grave malattia che affliggeva la sua bambina di appena venti mesi; dalla donna di servizio Elvira, dai miei fratelli e anche dalla mamma, che non riusciva a mangiare appunto per il mal di mare. Ancora oggi io e mio fratello Toni proviamo un leggero disgusto al solo pensiero di mangiare mele!

Ci fermammo al largo di Porto Elisabeth per il rifornimento di carburante; sostammo un giorno intero senza poter sbarcare e nemmeno guardare la riva con i cannocchiali: era infatti proibito in quanto, una volta in Patria, avremmo potuto riferire la posizione delle postazioni nemiche. Una giovanissima pittrice a bordo, ingenuamente intenta a ritrarre i panorami circostanti occupati però dagli inglesi, venne minacciata e le sue tele sequestrate e distrutte.

Ripartimmo il mattino seguente.

Maria Gabriella, la figlia della zia Ada, quindici giorni prima dell’arrivo morì, a soli venti mesi e nonostante le cure, le attenzioni dei medici e l’amore di tutto l’equipaggio: perse la vita consumandosi giorno dopo giorno.

Durante il viaggio morirono altre cinque persone. Furono pietosamente lasciate tra le onde del mare: credo fosse l’unico modo per evitare il rischio di epidemie. Per qualche tempo sembrava che la stessa sorte sarebbe toccata anche alla piccola Maria Gabriella, ma le proteste e le suppliche di mia zia convinsero il comandate a trasportarla fino a terra,

per poterle dare degna sepoltura nella tomba di famiglia. Giunti al Capo di Buona Speranza fummo travolti da una indimenticabile burrasca. Ricevemmo l’ordine di salire tutti sopracoperta: con fatica io e la mamma ci arrampicammo su per la scalinata che portava da Ulisse e Tonino: li trovammo distesi nelle cuccette intenti a guardare affascinati il mare, che riversava immense ondate dal castello di prua. Le scarpe galleggiavano ai piedi del letto e il mal di mare imperversava su tutti.

Noi, a bordo della Vulcania, vedevamo dagli oblò la nave gemella Saturnia comparire e scomparire tra un’ondata e l’altra. Le mine galleggianti, mosse dalle onde, ci minacciavano impietosamente, costringendo il comandante a cambiare continuamente rotta per evitarle.

La furia del vento colpì tutti i passeggeri e ricordo che per poter accedere ai bagni, era indispensabile farsi sostenere dalle braccia dei marinai, a loro volta legati alle fiancate della nave.

Passata la bellissima ed esotica isola di San Vincenzo di Capo Verde, ci fermammo a Las Palmas per un rifornimento.

Come in un film, assistemmo a spettacolari combattimenti tra gli incrociatori e gli aerei da guerra, mentre all’orizzonte flotte di navi davano vita a furiose battaglie.

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Veduta dello Stretto di Gibilterra in guerra

 Poco dopo la metà di luglio, ci diedero l’ordine di indossare la divisa e di radunarci sopracoperta per salutare il passaggio di un’altra nave italiana: mi sentivo fiera nella mia divisa da “giovane italiana” consegnatami alla partenza e così diversa da quella africana color kaki.

Qualche giorno dopo questo episodio, esattamente il 25 luglio, il comandante fece l’annuncio attraverso gli altoparlanti che il fascismo era crollato: quale sorpresa e che sgomento! Per noi, che nulla sapevamo sugli avvenimenti in Patria, fu un momento di profonda tristezza per la caduta di ciò in cui avevamo imparato a credere. Tutto precipitava, tutto si sfasciava. Dov’erano ora i bei tempi e i bei sogni della mia giovinezza? Cosa ne sarebbe stato del nostro avvenire?

Tuttavia i problemi che affliggevano in quel momento la mia famiglia, la mamma da seguire e i fratelli più piccoli da proteggere, mi distolsero da un accadimento storico così importante, che avrebbe inevitabilmente mutato nel profondo noi e la nostra nazione.

Infine, arrivammo allo Stretto di Gibilterra, protetto da navi da guerra e cannoni e sorvolato da numerose pattuglie aeree. Fu a questo punto che accadde un episodio preoccupante. Gli inglesi che erano a bordo, finalmente si accingevano a sbarcare dalle nostre navi Vulcania e Saturnia, liberandole dal nemico ma anche da chi in fondo ci aveva comunque difesi fino a quel momento. Il suolo patrio ci sembrava a portata di mano quando verso la fine di quel tormentatissimo viaggio, al comando inglese venne in mente di sfruttarci come ostaggi e di dirottarci verso l’isola di Malta.

Fu solo grazie al carattere combattivo del nostro capitano che gli inglesi decisero diversamente e tramite l’altoparlante, diedero il sospirato via libera, accompagnato da un caloroso e grato battimani rivolto al nostro coraggioso ufficiale.

Fu l’ultimo brivido di una traversata che dopo quasi 45 giorni di navigazione ci portò nella nostra amata Patria.

(segue e termina nel prossimo numero)