Paura della prigionia, analisi fasulla, autoestrazione di molare, caricature, il timbro dell'OETA, errori di pronunzia, interprete per modo di dire, assunzione all'"Eritrean Daily News".

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 Nel numero scorso del Mai Tacli, il collega Rodolfo Tani mi ha chiamato in causa in merito ad un marchingegno escogitato dai nostri connazionali che, nel 1941, lavoravano al giornale pubblicato dagli inglesi. Tale marchingegno era diretto a salvare gli italiani destinati alla prigionia.

 Caro Tani, non sono in grado di testimoniare, perché allora non ero ancora al giornale bilingue, che si chiamava "Eritrean Daily News" e non "II Quotidiano Eritreo". Questo lo fondarono, tre anni dopo, tre persone: il capitano inglese Tom Moore. Alfonso Segre e me stesso. Ma vi era Alfonso Segre, e forse fu lui, a inventare il trucchetto. Lo chiamerei a testimoniare se, povero Alfonso, non ci avesse lasciato alcuni anni fa. Ma ciò offre il destro di raccontare come ottenni "la identity card" e come fui assunto all'"Eritrean Daily News".

La fine delle ostilità in Eritrea  1° aprile 1941 — mi colse all'Asmara e mi lasciò nudo. Infatti, la prima cosa da fare per sfuggire alla prigionia era quella di spogliarsi dei panni militari per vestire quelli civili. Ebbene, io non avevo niente. Avevo lasciato tutto a Gondar di dove provenivo. Come avrei potuto indossare le sahariane che mi avrebbero denunziato con buchi lasciati dalle stellette? E come i pantaloni da cavallo e le camicie cachi? Nemmeno le scarpe: avevo gli stivali.

In certi frangenti, anche gli sconosciuti diventano amici. Mi regalarono tutto: chi i pantaloni, chi la giacca, chi le camicie e chi le scarpe. Ma questi indumenti di provenienza e taglia diverse, mi conciarono in modo tale che  forse in un campo di grano mi avrebbero scambiato per uno spauracchio.

Anche per l'alloggio non vi fu problema. Enrico Marzi, dirigente dell'INFPS ospitò me e il mio fraterno amico tenente Ambrogio Mattinò, aiutante maggiore del Gruppo bande a cavallo cui appartenevo. Trovammo alloggio in una delle due palazzine che l'INFPS possedeva, su una collina tra viale De Bono e via Oriani.

Per paura delle retate, restavamo tappati in casa e non trovammo niente di meglio che giocare a poker, col risultato che mi trovai presto sbancato dei forzati risparmi accumulati durante le operazioni in bassopiano. Ciò mi fece sentire un derelitto.

Quando poi il mio amico venne pescato in un retata, non ce la feci più. Decisi di ubbidire al proclama inglese che ingiungeva di presentarsi al Forte Baldissera, ove venivano raccolti tutti i militari destinati ai campi di prigionia.

 

I tassì di allora erano dei calessini piuttosto sgangherati tirati da poveri ronzini. Ne presi uno e mi avviai al Forte. Il calessino risalì viale De Bono e scese per viale Crispi, mentre sul clop clop degli zoccoli mi nasceva dentro un malinconico motivo musicale.

Ma ecco che, all'altezza dell'ospedale Regina Elena, mi ricordai che lì c'era Nino Cupi, un medico amico ex gondarino anche lui. "Chi sa che non mi possa ricoverare?" pensai. Scesi dal calesse e "Aspettami"'dissi al guidatore, "torno subito".

Con Cupi non ci vedevamo dall'inizio della guerra. "Come mai qui?" mi chiese.

"Cerco aiuto", gli dissi, "non voglio andare in prigionia. Non potresti ricoverarmi?"

"Che male hai?"

"Cosa vuoi che abbia? Niente"

"Non importa," mi disse sorridendo. "ora facciamo una bella analisi e vedrai che invece sei un ammalato grave".

E' cosi mi trovai in ospedale immerso in un beato far niente. Feci amicizia con molti degenti e schizzai le caricature di tutti loro, un esercizio che mi sciolse la mano e mi aiutò a vivere poi.

Tra i nuovi amici uno (non ne ricordo il nome) che mi procurò un documento falso il quale diceva che non ero stato militare. Rimasi al Regina Elena 40 giorni.

Ne uscii quando lessi sul giornale italiano "L'informazione", che fu diretto da Emanuele del Giudice ed ebbe vita brevissima, che l'Ordnance Depot magazzino vestiario) che aveva occupato dei grandi capannoni in zona Sembel, cercavano impiegati che parlassero inglese.

Il mio inglese allora era scadente. Ne conoscevo discretamente la grafia, ma la pronunzia era un disastro. Comunque, armato di faccia tosta, mi presentai all'Ordnance Depot. Un interprete, zoppo, il signor Morpurgo, mi accompagnò da un capitano, il quale guardò il mio documento, ma quando vide che non avevo il timbro dell'OETA (Amministrazione del territorio nemico occupato), mi rimandò indietro e mi cacciò nella disperazione.

Che dovevo fare? "Qualunque cosa, ma al Forte no", mi, dissi. Decisi che avrei lavorato schizzando caricature. La prima la feci alla Croce del Sud ad un signore che forse non ci teneva, ma capiva la mia situazione. Guadagnai le prime venti lire.

Questo avveniva accanto alla pedana dell'orchestra che era formata dai due giovani Trinci (piano e violino) Allodi (primo violino) Enea (sassofono) e non ricordo chi fosse il batterista. Ai cinque musicisti piacque la caricatura e mi chiesero di essere schizzati a loro volta.

Accettai e ne feci un grosso quadro che venne esposto nella sala. Le caricature son come i semi di zucca: uno chiama l'altro. E' cosi ben presto mi trovai in tasca un bel po' di quattrini. Ma ero tutt'altro che soddisfatto.

Prima di allora avevo sempre disegnato per hobby, ed ora mi vergognavo un po' nel farlo a pagamento. Poi il mio "lavoro" attirava l'attenzione e temevo, di essere pescato dagli inglesi che, di tanto in tanto, facevano retate proprio alla Croce del Sud. Urgeva ottenere il timbro, ma come fare?

Il pericolo della prigionia era tutt'altro che passato. Alle 17 (o 18?) cominciava il coprifuoco. Era ancora giorno, ma la gente si affrettava a rincasare. Faceva una strana impressione vedere la città deserta, quando il sole non era ancora tramontato. Asmara era immersa in un pesante silenzio nemico.

Alla mia paura di andare a finire al Forte si accoppiava un terribile mal di denti. Il dolore era causato dall'ultimo dente dalla parte destra. Una sera era cosi forte che mi faceva impazzire. Mi veniva la voglia di battere la testa contro il muro. Spinto dalla disperazione, decisi di estrarre io stesso il molare. Ma non era cosa facile. Siccome era l'ultimo e prima di esso me ne mancava un'altro, riuscivo ad attanagliarlo. Ma una cosa è una pinza da dentista e un'altra quella che avevo in mano. Per quattro volte i tentativi furono vani. Sembrava che il dente, che io avevo personificato durante quelle ore maledette, non ne volesse sapere di lasciare la mascella. Sembrava che avesse vita propria. Infatti gli parlavo. "Brutto fetente," gli dissi, "è inutile che resisti. Tè ne devi andare, ti strapperò via". Ma ogni volta che lo stringevo la pinza scivolava via, mentre il dolore acutizzato mi faceva gemere.

E finalmente sentii che la pinza teneva. “É finita per tè, brutto schifoso." dissi al molare. Feci rotare leggermente la pinza e un piccolo "crac" mi disse che il mio nemico si era staccato dalla gengiva. Una strappata e... via il dente via il dolore.

Respirai. Guardai il molare sanguinolento e mentre sputavo nel lavello, il mio stato d'animo cambiò. Sentii un certo dispiacere per aver eliminato qualcosa che tutto sommato era parte di me stesso. Gli perdonai e decisi di conservarlo, anche se poi non so dove andò a finire.

Quando i coinquilini seppero dell'autoestrazione si meravigliarono e uno di loro, un romano, esclamò: “Ammappela, che coraggio!" Si, era coraggio, ma quello della disperazione, che può spingerti fino al suicidio.

Il giorno dopo, libero dal mal di denti, scesi dalla collina alla via Nino Bixio e da questa a piazza Finocchiaro Aprile. Mi fermai al bar Zilli per un caffè, quindi me ne andai verso il centro. Dovevo ottenere il timbro e qualcosa mi diceva che sarei riuscito a ottenerlo. E il qualcosa non mi ingannava. Arrivai in corso Italia e, all'altezza della Cattedrale, entrai  in una tabaccheria. Qui incontrai Morpurgo. Mi riconobbe e "l'ha poi ottenuto il timbro?" mi chiese. "Macchè, sono nei guai. Che cosa devo fare?" "Non si preoccupi, domani venga al Sembel e forse riusciremo a risolvere il problema; ora c'è un maggiore tanto buono".

Il mattino dopo vi andai pieno di speranza. Morpurgo mi accompagnò dall'ufficiale, un uomo biondo e pallido. Scambiammo poche parole e le ricordo tutte. "Are you a soldier? (siete soldato?) "No, I am not," risposi. "Do you speak English?" "Just a little bit (un pochettino). Forse gli piacque la mia modestia. Certo è che disse a Morpurgo di accompagnarmi all'OETA per il timbro. Se la memoria non m'inganna l'ufficio ove andammo era nella palazzina all'inizio del Vialetto che portava al bianco palazzo governatoriale. Qui il capitano Smith, un uomo grassoccio e panciutello, guardò attentamente il mio novello certificato che avevo invecchiato sgualcendolo e sporcandolo. Forse capì che era falso. Ma siccome chi mi mandava da lui era un maggiore, non stette a pignolare: afferrò il timbro e con un colpo secco lo stampò sul certificato.

L'incubo era finito. Andammo alla vicina Croce del Sud che mi aveva sempre visto entrare con circospezione. Questa volta, invece avanzavo pieno di baldanza. Offrii da bere non solo a Morpurgo, ma anche all'orchestra che dopo mi dedicò un pezzo. Era "Reginella campagnola", ma mi sembrò la marcia trionfale dell'Aida.

Il lavoro di magazzino era facilissimo, difficile era farsi capire e capire ciò che dicevano gli altri. Ci aiutavamo scrivendo. Ma spesso ci veniva in aiuto Pappalardo, un italo-egiziano che lavorava al tavolo vicino al mio.

La "identity card" la ottenni di ufficio. La qualifica era di interprete, mentre, come avete visto, di interprete avevo bisogno io. Feci progressi con l'inglese e con la qualifica: diventai "chief  clerk (funzionario).

Un giorno seppi che dall'Eritrean Daily News (quotidiano bilingue) cercavano un traduttore. Non è che il mio inglese fosse tale da permettermi la traduzione di qualsiasi articolo e tuttavia ebbi la faccia tosta di presentarmi al direttore, il capitano Tom Moore. L'interrogatorio andò bene e fui assunto. Era il 10 giugno del 1942.

                   Oscar Rampone

(Mai Taclì N. 1-1986)