L'albero del pepe

di Giulia Ferracciolo Trimarchi

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  Chissà se ai tempi in cui Giulia Ferracciolo Trimarchi annotava in un diario le vicissitudini di una Marta immaginaria e i fatti e le tribolazioni di luoghi cosi amati da averne la sensazione esatta soltanto più tardi, già pensasse di mettere assieme, di rimpastare il tutto e a fame scaturire una storia intera? Me lo domando dal momento in cui ho letto «L'albero del pepe», perché l'agilità dell'appunto, non trovando corposo sviluppo nelle pagine del romanzo, in esse si diluisce, si stempera dolcemente rimanendo abilmente snello, ma anche soffermandosi sull'accadere dei fatti che fanno storico scenario.

Ma quant'altro mi ha colpito leggendo le pagine di Giulia lo lascio dire alla mia presentazione del libro, che per i tipi dell'Editore G.F. Toni-Hofrmann di Carrara, sta vedendo la luce e che l'Autrice conta potere presentare agli Asmarini in occasione del XIV Raduno che avrà luogo a Roma nel maggio prossimo.

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Sarà più all'insegna dell'amore che della competenza questa mia prefazione al libro di Giulia Ferracciolo Trimarchi.

Giulia la ricordo schiva, probabilmente timida, grandi occhi sovrastanti la figura minuta nel grembiule nero della scuola, che allora di jeans e altre fogge nemmeno si parlava.

Comuni gli insegnanti che la dicevano pronta, sensibile e intelligente. Ma non era necessario lo dicessero, che quei grandi occhi di cui già ho accennato lo esprimevano.

La sua storia, che è più che un diario o una memoria, mi induce a scomodare l'accademico di Francia Henri Monteherlant e a contraddirlo quando sosteneva: «Chi ha passato due settimane in Marocco pubblica, al rientro, due libri sul Marocco. Chi vi ha passato molti mesi non scrive che un solo libro. Chi vi ha vissuto degli anni non scrive più niente».

Qui si tratta di stabilire se l'Eritrea è stata una realtà tanto apposita a quella del Marocco o di altre entità geografiche, oppure se chi ha vissuto a lungo fuori, lasciando quella terra, non è stato raggiunto dall'acre odore dell'albero del pepe.

Ciò ammettendo, riabilito l'asserto dell'Accademico di Francia, mi tolgo il cappello e gli chiedo scusa: è chiaro, l'Eritrea fa eccezione eccetera eccetera.

«L'albero del pepe» di Giulia Ferracciolo Trimarchi non è il forzato tentativo di ambientare una vicenda in un luogo specifico, tentativo che quasi sempre risulta anacronistico, senza un perché, a volte grottesco.

Vicenda, ambiente, natura, fatti politici e storici sono l'uno complementare dell'altro, si innestano mirabilmente.

Probabile che verranno maggiormente goduti da chi ha ancora nelle mani quell'odore pungente. Ma dico che anche chi, dopo tant'anni, è riuscito a spazzarlo via, tale odore, perché altri aromi, forse più intensi, ma sicuramente meno cari, si sono sovrapposti, saprà concentrarsi per pochi attimi e fiutarlo ancora, così da starnutire assieme a Giulia Ferracciolo Trimarchi.

E se gli occhi si arrosseranno e diverranno umidi, chi vorrà celare la commozione, potrà dire che è stato il pepe.

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E qui la smetto di parlare dell'opera di Giulia con amore.

È comunque certo che non assumerò arie di competenza. Sono solito indossare, in queste occasioni, l'abito del comune lettore, di colui che viaggia a gusto proprio e i gusti, è risaputo, non si discutono.

Il catalogo 1986 del Premio Pieve, ideato dal Comune di Pieve S. Stefano, in provincia di Arezzo. premio patrocinato dalla Banca Toscana, particolarmente rivolto a diari, memorie, epistolari, se la cava con due scarne righe: - «L'albero del pepe», una vicenda intima risolta dalla Sacra Rota si intreccia con le traversie militari e il contatto con la natura in Eritrea - Ma sicuramente si può e si deve dire di più.

Giulia Ferracciolo Trimarchi è attenta testimone dei fatti politico-storici che avviluppano la vicenda. E in questi fatti la  immerge, così come la immerge nel colore dei paesaggi o degli usi eritrei e chiama le semplici genti di laggiù a stagliarsi nitidamente, a fare ben più che da comprimati. E il diario di Giulia Ferracciolo Trimarchi diventa romanzo.

Leggendo «L'albero del pepe» mi sono più volte chiesto se è la vicenda ad annettersi l'ambiente o viceversa. Si potrebbero sostenere le due cose, ma è chiaro che Giulia Ferracciolo Trimarchi ha volutamente e abilmente stemperato il soggetto nella scenografìa e nei colorì che procedevano di pari passo con la storia. E poi, nostalgicamente, dico io, con mestiere, potrà dire il lettore che non conosce ne Giulia ne l'Eritrea, ha condito col pungente profumo del pepe.

C.A.