È rimasto solo l’orgoglio

Nel ’41 del secolo scorso, le truppe di S.M. Britannica entravano in Asmara accompagnate dalla fanfara e dalla loro inalterabile alterigia. La Colonia italiana d’Eritrea era arrivata alla sua fine. Lo scettro del comando era passato nelle mani color carota dei nuovi padroni che lo usarono, spesso, senza tanti riguardi.

Nel 1943, mentre in Europa infuriava più violenta che mai la seconda guerra mondiale, gli italiani d’Eritrea compirono il loro primo prodigio post bellico realizzando la M.A.P.E.  dove misero in mostra i prodotti del loro ingegno, delle loro capacità tecniche, delle loro risorse e della loro manualità artigiana.

Erano trascorsi soltanto due anni! Nel marasma del passaggio dei poteri, degli arresti, delle deportazioni in campi di concentramento, di sconvolgimenti familiari, gli italiani si rimisero al lavoro e, lo ripeto, in soli due anni  furono in grado di allestire una mostra che destò grande ammirazione. Lo stupore di fronte alla forza di reazione e alla tenacia degli italiani, lasciò tutti a bocca aperta.

Era il periodo in cui gli eritrei cominciarono a definirci “stranieri”, il periodo delle divisioni, delle invidie, delle manifestazioni pro questo o pro quello e il paese era in una sorta di ebollizione permanente: eppure gli italiani continuarono a lavorare e a creare nuove attività inventandosi di tutto. E offrendo posti di lavoro agli eritrei.

Basterebbe ricordare che l’Eritrea cominciò ad ESPORTARE prodotti chimici, carni trattate, formaggi, pesce trattato, farina, pasta, birra, vino, alcolici diversi, olio vegetale, ceramiche, mattoni, manufatti di vetro, candele, fiammiferi, prodotti medicinali e farmaceutici, colori e vernici, manufatti in pelle, bottoni, olio e farina di pesce, madreperla e trokas, colla…. per raccontare la nuova epopea degli italiani d’Eritrea alla faccia di chi li osteggiava in tutti i modi.

Quello che fu fatto dagli italiani d’Eritrea mentre il paese era ancora praticamente isolato ha letteralmente dell’incredibile: soltanto chi ha vissuto quegli anni può credere a ciò che avvenne; leggerlo nei pochi testi che riportano le crude cifre del numero di imprese di ogni tipo, dell’incremento costante della produzione in ogni campo e delle continue migliorie può far sorgere qualche dubbio perché la quantità di lavoro fatto fu stupefacente.

Mentre da altre colonie i bianchi se ne andavano salvando il salvabile, gli italiani d’eritrea rimasero a presidiare il loro “fortino” spendendo tutte le loro energie per migliorarlo a vantaggio di tutti. E, con il passare degli anni, il progresso dell’Eritrea, dovuto principalmente agli italiani, meravigliò tutti e cominciò a dilatarsi anche nella confinante Etiopia.

Poi la marea sommerse tutto e, ora, sono sopravvissute poche tracce di quel fermento operativo che era giunto a mettere in piedi oltre millecinquecento aziende creatrici di lavoro e ricchezza. E chi è giunto dopo scrive di architettura, di edilizia, di stili, di strade… e tutto il resto? Di tutto quello che fu il frutto di enormi sacrifici si è persa la memoria. Eppure tutto ciò che venne distrutto da nazionalizzazioni, guerre, espropri, incapacità, trascuratezza, ignavia e superbia, costituì per lunghi anni la ricchezza del paese. A che serve scrivere libri analizzando politiche coloniali, rapporti e trattati, vittorie e sconfitte, se si ignora il quotidiano lavoro di migliaia di italiani che seppero, essi sì, scrivere pagine indimenticabili.

A quegli italiani d’Eritrea non è rimasto che l’orgoglio per ciò che seppero fare e il ricordo di un paese che avevano profondamente cambiato e migliorato. Forse è un po’ poco, ma è sempre meglio di niente!

Angra

(Mai Taclì N. 2-2005)