ECLISSI IN OLTREGIUBA

di Raffaele Laurenzi

 

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14 gennaio 1926: gli astronomi italiani assistono a Punta Sherwood, sud della Somalia, a una eclissi totale di sole ● La spedizione ha un merito anche politico: «pubblicizza» la nuova colonia dell'Oltregiuba, che pochi mesi prima la Gran Bretagna ha ceduto all’Italia, magro compenso al contributo alla vittoria nella guerra 1915-18 ● Principale scopo della missione: approfondire la questione delle misteriose «ombre volanti»

Le chiamano «ombre volanti», bande chiare e scure che percorrono velocemente il suolo durante la fase iniziale e finale di un’eclisse di sole. Un fenomeno di cui, fino agli anni Venti, vengono date varie spiegazioni, nessuna suffragata da prove.

Il guaio delle «ombre volanti» è che si palesano pochi minuti. Dopodiché si deve aspettare un’altra eclisse. Che nello stesso luogo e con le stesse modalità potrebbe ripresentarsi dopo cinquant’anni, forse cento. Troppo per un comune mortale. Gli astronomi che intendono proseguire le loro osservazioni sono costretti perciò a inseguire le eclissi là dove queste si presentano, anche in capo al mondo: missioni costose, che poche università e poche nazioni possono finanziare.

Considerate queste premesse, possiamo comprendere la soddisfazione del professor Guido Horn d’Arturo, docente di astronomia a Bologna e direttore dell’osservatorio, quando il 24 maggio 1924 legge sul Resto del Carlino il comunicato in cui il Foreing Office britannico conferma la cessione all’Italia dell’Oltregiuba, piccola colonia compresa tra il Kenya e la Somalia.

Vi chiederete: che c’entra il Foreing Office con le «ombre volanti»? C’entra, perché il cono d’ombra che il 14 gennaio 1926 la luna, oscurando completamente il sole, proietterà sul nostro pianeta, transiterà verso le ore 8 proprio sulla regione dell'Oltregiuba: arida, disabitata, lontana quattro settimane di navigazione dalla nostra civiltà, ma adesso colonia italiana, un'occasione straordinaria per studiare le misteriose «ombre volanti» e gli altri fenomeni solari lungo la fascia equatoriale, senza chiedere ospitalità a paesi stranieri.

Guido Horn individua il punto di osservazione più favorevole 120 km a sud ovest di Chisimaio, presso un lieve promontorio, brullo e sabbioso, che gli indigeni chiamano Ras Hequa e che sulla carta 1:250.000 dell’Ammiragliato britannico è indicato come Punta Sherwood.

L’irresistibile richiamo delle «ombre»

Dopo la missione, Horn pubblica una dettagliata relazione del fenomeno celeste. Nella prefazione scrive: «Il problema delle ombre volanti, che precedono e seguono la totalità dell’eclisse solare e che furono l’oggetto principale dei miei studi recenti, m’invogliò a vedere coi miei occhi questo fenomeno, che non conoscevo ancora se non per le descrizioni degli osservatori. Un’occasione propizia mi si presentò con l’eclisse totale del 14 gennaio 1926, particolarmente interessante la mia indagine, perché visibile in vicinanza dell’equatore: mi premeva cioè di aggiungere un'altra osservazione a quelle, non tanto numerose, eseguite nella zona torrida, con l’esame delle quali io m’ero persuaso della necessità che le ombre si movessero ivi verso l’occidente.»

Guido Horn nasce nel 1879, nella Trieste sotto dominazione asburgica, da famiglia ebrea. In seguito italianizza il cognome aggiungendo «d'Arturo», nome del padre morto quando lui ha due anni. Della sua educazione si occupa il nonno Raffaele Sabato, rabbino della città istriana. Il giovane Guido si è formato in quel grande mondo antico, al centro dell’Europa, che è stato terreno fertile della cultura mitteleuropea e che a Trieste ha generato i suoi frutti migliori: Italo Svevo, Umberto Saba, i fratelli Slataper, i fratelli Stuparich…

I fondi si trovano

Si deve osservare che persino oggi una spedizione scientifica nel sud della Somalia risulterebbe complessa. Figurarsi nel 1925. Ma Guido Horn, oltre a essere uno scienziato, stimato in Italia e all’estero, è anche uomo d’azione. Allo scoppio della guerra 1915-18, si arruola volontario nell’esercito italiano, artiglieria, e combatte sul Carso. Se gli austriaci lo facessero prigioniero, lo manderebbero sulla forca, come Cesare Battisti e a Nazario Sauro. Un uomo così non si lascia impressionare dalle difficoltà della spedizione in Oltregiuba, che stanno prima di tutto nel reperimento dei fondi. Horn è un cattedratico, ha conoscenze ad alto livello, può raggiungere ministri e parlamentari. Insomma, conosce le strade. Intuisce che il governo dell'Oltregiuba ha tutto l'interesse a favorire la spedizione e a darle risalto: aiuterebbe a rendere la «conquista» di quella povera colonia più gradita all’opinione pubblica italiana, delusa del magro compenso al nostro contributo alla vittoria nella sanguinosa guerra 1915-18. Un importante aiuto, sotto forma di uomini e mezzi, arriva infatti dal Commissario dell’Oltregiuba Corrado Zoli e dal ministro delle Colonie, principe Pietro Lanza di Scalea. A questo riguardo, Horn scrive: «Sua eccellenza il principe Lanza accolse molto benevolmente una rappresentanza della missione, presentatagli dal senatore Mengarini, e, fatta sua l’idea espostagli dalla missione, che l’Oltregiuba non potesse lasciar passare con indifferenza il rarissimo avvenimento, promise tutto il suo appoggio.»

Anche il ministero della Pubblica Istruzione fa la sua parte, elargendo un contributo di ben 50.000 lire (la Fiat 509 costa nel 1925 18.500 lire). Università, osservatori astronomici, aziende private e la Regia Marina Militare forniscono apparecchiature, tende e strumenti. Il governatore dell’Oltregiuba Corrado Zoli mette a disposizione appoggio logistico, materiali e uomini. Tra questi, il maresciallo maggiore dei carabinieri Eugenio Podestà, il motorista sergente maggiore Galasso, il radiotelegrafista capitano maggiore Monesi, un falegname e una trentina di armati indigeni.

Quattro uomini in barca

Horn trova un «complice» pieno di entusiasmo nel collega Luigi Taffara (Catania, 1881-1961), dal 1924 direttore incaricato dell’osservatorio di Collurania, presso Teramo. Ottiene poi che siano aggregati alla missione due stimati uomini di scienza: il fisico Guglielmo Mengarini e il professor Luigi Palazzo. Mengarini (1856-1927), docente di elettrotecnica a Roma, è Senatore del Regno, funzione che, come abbiamo visto, apre a Horn la porta del ministro delle Colonie. La sua esperienza in materia di fotografia di eclissi sarà preziosa. A questo scopo, Mengarini ha approntato una speciale macchina fotografica, la «quadruplice camera», costituita da quattro obiettivi da 80 millimetri d’apertura e due metri di distanza focale, che ha già avuto modo di utilizzare durante le eclissi del 1905 in Spagna e del 1914 in Crimea. Non solo: è il maggior esperto italiano di misurazioni magnetiche terrestri e ha al suo attivo approfonditi studi sulle relazioni fra radiazione solare, magnetismo terrestre e «radiazioni penetranti». Mengarini è benestante, non vuole gravare sul bilancio della missione: sosterrà di tasca sua tutte le spese che lo riguardano.

Il quarto uomo, il professor Palazzo, è direttore del Regio Ufficio Centrale di Meteorologia e Geofisica di Roma. Il 30 settembre 1925, Horn gli scrive una lunga lettera con la quale lo aggiorna sui preparativi della spedizione scientifica e lo informa del generoso finanziamento concesso dal Rettore dell’Università di Bologna Pasquale Sfameni, definitivo viatico alla missione.

I giornali ne parlano

Il 5 novembre 1925 il Corriere della Sera, in un breve articolo di taglio basso, annuncia la partenza dei ricercatori italiani per Chisimaio, spiegando che il luogo prescelto per l’osservazione sarà «il promontorio di Punta Sherwood, al limite della nostra nuova colonia del Giuba».

Il Corriere della Sera torna sull’argomento l’11 dicembre, stavolta con un ampio articolo corredato da disegni al tratto e da una cartina che illustra il percorso del cono d’ombra sulla superficie terrestre. Firma l’articolo «Uranio», pseudonimo di Isidoro Baroni (1863-1930), divulgatore scientifico del giornale milanese, astrofilo a sua volta e autore di trattati di astronomia. Scrive Uranio: «L’annunziata spedizione astronomica italiana (...) è già in viaggio per le nostre colonie dell’Africa Orientale. Partita da Napoli il 14 novembre (a bordo del piroscafo Firenze, ex Roma, n.d.r.), è giunta a Mogadiscio (Somalia) il 5 dicembre ed a Chisimajo (Transgiuba) il 9, per poi proseguire ancora per via di mare, se i monsoni lo permetteranno, o per via di terra, con carovane, fino alla desertica Punta Sherwood, a circa 150 chilometri sud ovest di Chisimajo, dove sarà stabilita la Stazione astronomica.»

In realtà, le autorità di Chisimaio hanno già scartato l’idea di accompagnare la missione scientifica a dorso di cammello. La missione proseguirà via mare, a bordo di battelli di modesto dislocamento, in grado di navigare sotto costa. Il piroscafo Firenze, che ha portato a Chisimaio la missione astronomica, 110 metri di lunghezza, 3952 tonnellate di stazza lorda, 13,5 nodi, non potrebbe infatti avvicinarsi al promontorio di Punta Sherwood, ribattezzato per l’occasione Baia dell’Eclisse, a causa del pescaggio, ben sette metri e mezzo. Perciò il 17 dicembre, quando il Firenze getta le ancore nella rada di Chisimaio, tutto il materiale della spedizione, 130 casse, deve essere trasbordato su agili sambuchi che lo portano sulla spiaggia.

Le casse diventano 200

L’operazione di trasbordo delle 130 casse si svolge sotto lo sguardo preoccupato di Horn, che ha curato personalmente gli imballaggi, prevedendo, per le apparecchiature più preziose, una seconda cassa ermetica di zinco stagnato. Va da sé che, se una cassa dovesse sfilarsi dall’imbracatura e finire in acqua, sarebbe perduta per sempre.

Anche lo scaricamento a terra comporta dei rischi, perché i sambuchi, appesantiti dal carico, si arenano ad alcuni metri dalla battigia. Gli indigeni ingaggiati come scaricatori devono perciò immergersi in acqua fino alla cintola, rinnovando il rischio che una cassa finisca in acqua. Invece, tutto fila liscio.

Alle 130 casse scaricate dal piroscafo Firenze si aggiungono a Chisimaio 70 casse di viveri. Totale: dieci tonnellate di materiale che, sempre a braccia, viene ora caricato in parte a bordo di quattro sambuchi, in parte a bordo di un piccolo piroscafo, il Tuna, di modesto pescaggio. Finalmente, la sera del 20 dicembre, i sambuchi prendono il largo trainati dal Tuna, sul quale prendono posto anche i componenti della spedizione.

Alle prime luci del mattino il Tuna effettua la manovra di ancoraggio davanti a Punta Sherwood. Prima di scendere a terra, si effettuano i rilevamenti della latitudine, avendo per riferimento l'orizzonte naturale. Risultato (media di varie misurazioni): latitudine -1° 28’ 26’’. La meta prefissata è invece latitudine -1° 28’ 40’’. Horn comprende di essersi spinto un poco troppo a sud, perciò, nel dirigere i sambuchi verso la spiaggia, li orienta verso nord, avendo come riferimento un albero che si erge solitario presso la spiaggia.

Punta Sherwood, si piantano le tende

Osservazioni ripetute a terra con l’orizzonte artificiale ad olio danno risultati più vicini alla meta prefissata. La stazione risulta spostata soltanto 400 metri di latitudine e circa 1200 metri di longitudine. Ma portarsi più a oriente, verso la battigia, è impossibile per il pericolo di essere raggiunti dalla marea.

Scrive Horn d’Arturo: «La scorta, a braccia, portò le casse al luogo prescelto per la stazione, lontana un centinaio di metri dalla riva. Qui la missione ebbe due fortune: anzitutto il cielo sereno che permise la determinazione della latitudine prima che partisse il piroscafo, poi il mare eccezionalmente tranquillo, che non disturbò l’opera degli scaricatori, immersi per buona parte nell’acqua. (...) Rizzate le tende, s’incominciò la costruzione di una baracca di legno per proteggere gli strumenti principali, e si procedette al lavoro delle fondazioni in cemento e mattoni su cui sorsero l’Equatoriale di Salmoiraghi e la “quadrulice camera”. Sui propri sostegni e su casse affondate nella sabbia si installarono gli strumenti minori. Le tre settimane che ci separavano dal giorno dell'eclisse furono spese nella rettifica della posizione degli strumenti e nella rideterminazione delle distanze focali. Fu costruito anche un camerino oscuro per lo sviluppo delle lastre fotografiche. Contemporaneamente il prof. Palazzo allestì la sua stazione meteorologica e magnetica.»

A proposito di «rizzate le tende», l’ingrandimento di una fotografia ci permette di riconoscere sul bordo di un telo il glorioso marchio Ettore Moretti, oggi scomparso. La storica azienda milanese, con sede in Foro Bonaparte 12, ha infatti contribuito al successo della spedizione fornendo tutta l’attrezzatura da campo. È la stessa azienda che, tre anni più tardi, confezionerà la famosa Tenda Rossa, dove troveranno rifugio i sopravvissuti del dirigibile Italia di Umberto Nobile, che la mattina del 25 maggio 1928, durante un’esplorazione scientifica al Polo Nord, andrà a schiantarsi sul pack; la stessa Moretti che nel 1954 equipaggerà la spedizione himalayana guidata da Ardito Desio, che avrebbe portato Achille Compagnoni, Lino Lacedelli e Walter Bonatti sulla vetta del K2; la stessa Moretti che negli anni Sessanta permetterà a milioni di italiani di sperimentare gioie e dolori del campeggio.

Condizioni meteo favorevoli

Horn riprende il suo racconto, fornendoci importanti informazioni anche sulle condizioni di vita nel campo base: «Il lavoro della missione fu agevolato dalla bontà del clima; in quel mese successivo al solstizio, la temperatura oscillò tra i 25 e 32 gradi centigradi all’ombra e riuscì sopportabilissima anche per lo spirare perpetuo del mite monsone di Nord Est (20 km all’ora); la mancanza assoluta di precipitazioni, e la conseguente siccità del terreno, aveva fugato gl’insetti nocivi, abbondantissimi, come dicono, nella stagione delle piogge. L’umidità relativa si mantenne invece piuttosto elevata (80-100 %) e mentre poco danno derivò agli strumenti dalle sabbie mosse dal vento, si dovette lottare contro il pericolo di arrugginimento dei metalli. (...) Il contegno della scorta, costituita in parte dalla classe un tempo dominante, in parte da liberti, fu sempre tranquillissimo e nessuna molestia ebbe a subire la Missione da parte delle tribù litoranee, il cui capo Ogadèn percorreva ogni tanto le molte miglia che lo separavano dall’accampamento per venire a ossequiare la Missione. Anche il giorno dell’eclisse, la scorta, allontanata dal campo, in previsione dell'inquietudine che la straordinarietà del fenomeno suole provocare in gente primitiva, fu invece, al sopravvenire della totalità, piuttosto abbattuta che eccitata, e rimase raccolta e orante sulla spiaggia.»

La stazione per lo studio delle ombre volanti viene così descritta dall’astronomo triestino: «Per l’osservazione di questo fenomeno erano stati designati due osservatori distanti tra loro un centinaio di metri. Ciascun osservatore aveva rivolto al sole un telaio verticale e uno orizzontale e si proponeva di determinare l’orientamento delle ombre, sulle due tele, mediante due bacchette.» Questi semplici strumenti di osservazione convincono Horn della correttezza delle sue teorie, che trent’anni più tardi verranno confermate da scienziati statunitensi, quando saranno disponibili strumenti più moderni.

Dispaccio dell’agenzia Stefani

Una corrispondenza da Chisimaio dell’agenzia Stefani, che il Corriere della Sera pubblica il 16 gennaio 1926 sotto il titolo «L’eclissi solare felicemente osservata dalla missione italiana nell’Oltre Giuba», informa gli italiani sull’esito della missione scientifica. Scrive il giornalista: «La missione inviata dal Governo italiano per l’osservazione dell’eclissi totale di sole attesa per questa mattina alle 8, ha potuto esplicare il compito ad essa affidato con pieno successo. Gli scienziati che la compongono avevano impiantato la propria stazione a Punta Sherwood, località prescelta per l’osservazione lungo la linea centrale dell'eclissi. Per accrescere la probabilità di una favorevole osservazione del fenomeno, la cui durata è stata di due minuti e 11 secondi, avevano organizzato, oltre a un osservatorio principale, due altri osservatori muniti di appositi strumenti per l’osservazione fotografica delle ombre volanti. Tutti e tre gli osservatori hanno avuto la piena visibilità del grandioso fenomeno. È stato possibile prendere del flash della corona e delle ombre volanti con numerose fotografie che verranno sviluppate in Italia, come pure sono state compiute varie osservazioni al pirocliometro ed ottiometro Asiago, nonché rilievi magnetici. È atteso con vivo interesse il rapporto dettagliato preliminare, che i componenti della missione stanno stendendo ciascuno per la parte di sua competenza, ed è vivo il compiacimento per i felici risultati ottenuti.»

Dodici anni più tardi

Il nostro resoconto della spedizione astronomica di Guido Horn d’Arturo in Oltregiuba sarebbe incompleto se non ricordassimo ciò che sarebbe avvenuto dodici anni più tardi.

Nell’autunno del 1938, in seguito alla promulgazione delle leggi razziali, Horn viene rimosso dall’incarico di docente e di direttore dell’osservatorio di Bologna.

Per il regime fascista, i meriti di combattente e di irredentista, almeno quelli, dovrebbero valere qualcosa. Invece, niente. A nulla valgono neppure i tanti anni d’insegnamento, le pubblicazioni accademiche o la stima della comunità scientifica internazionale, che Horn si è guadagnato per le sue osservazioni astronomiche e soprattutto per aver ideato lo «specchio a tasselli», composto cioè da tessere opportunamente orientate, che permette di migliorare notevolmente la qualità della visione degli astri. Da un giorno all’altro, i suoi meriti sono azzerati, cancellati, dimenticati. Non è il solo, naturalmente: la sua sorte è condivisa da tutti i docenti italiani di origine ebrea.

Il 13 ottobre 1938 i principali giornali italiani pubblicarono l’elenco dei professori deposti. Il Corriere della Sera, sotto l’occhiello «La difesa della razza» e il titolo «I professori universitari ebrei che lasceranno l’insegnamento», riporta senza commenti, ma con evidente imbarazzo, l’elenco dei professori universitari che «dovrebbero lasciare l’insegnamento il 16 ottobre», così come è stato pubblicato da «Vita Universitaria», organo ufficiale dell’Università di Roma. Sorprende la lunghezza dell’elenco: un centinaio di nomi. Ancora di più sorprende il silenzio dei colleghi «ariani», pronti a occupare le cattedre lasciate libere dai docenti epurati.