CERAMICA IN ETIOPIA

Le prime esperienze per produrre ceramica smaltata, da noi detta "faenza", le feci nel 1942 all'Asmara in Eritrea.

La guerra in Europa era ancora in atto, quindi per quanto concerneva i rifornimenti di materiali, materie prime ed attrezzatura, eravamo completamente tagliati fuori. Dovetti iniziare da zero e rifacendomi non ai sistemi moderni della tecnica europea ed italiana in ispecie, ma agli accorgimenti, prove, tentativi, degli antichi ceramisti, i primi che trovarono il modo di "smaltare".

Rispolverai nella memoria quanto avevo studiato nella storia ed archeologia della ceramica, lo abbinai al ricordo di esperienze fatte all'inizio della mia carriera in fabbriche di vasellame rusticano, e potei tracciare un canovaccio su cui basare i miei tentativi.

Argille: nella zona di Asmara non è facile trovarne di idonee; anche l'argilla della fornace Pedulla, ottima per mattoni o altri manufatti in cotto, non riteneva lo smalto che, a finito, si staccava in scaglie. Ne trovai della discreta nella zona della "polveriera", ma molto impura e che abbisognava di una accurata levigazione e decantazione. In seguito mi rivolsi alle argille estratte dai pozzi che si andavano scavando. Ad una certa profondità si trovavano falde di argilla discreta e pulita.

Foggiatura: era eseguita alla "ruota" tradizionale da vasaio da alcuni italiani che, pur avendo abbandonato da tempo tale lavoro, dati i particolari momenti e la situazione in cui ci si trovava, l'avevano ripreso. I piatti, le tazze, i "fingial" erano formati al tornio meccanico costruito da una officina locale, con regolari stampi di gesso.

Smalto: per la composizione dello smalto adottai il sistema antico della calcinazione del piombo in un forno a riverbero che costruii sul ricordo di quello da me visto nella fabbrica di ceramiche rustiche a Vietri sul Mare nel 1927.

Per renderlo bianco non avevo lo stagno, introvabile in quel tempo per le requisizioni operate dagli occupanti inglesi. Ripiegai usando l'antimonio, che invece del bianco dà il giallo. Incettai quindi presso i depositi di rottami di ferro e gli "sfasciacarrozze" gli elementi delle batterie da auto, fatti appunto di piombo in lega con l'antimonio che lo rende più resistente all'azione meccanica. Ho usato anche pallettoni da shrapnel recuperati dallo smontaggio di proiettili di artiglieria. Questi erano troppo ricchi di antimonio e la calcinazione molto più difficile, ma mi diedero uno smalto giallo carico, quasi arancio.

Detto calcino miscelato ad una adeguata dose di sabbia di quarzo aurifero  (sola sabbia disponibile e prelevata dai mucchi di scarto della miniera d'oro) e macinata con un rudimentale mulinetto di pietra azionato a mano, mi dava finalmente lo smalto.

Colori: per questi dovetti limitarmi a quelli fondamentali della ceramica arcaica. Il "verde ramina" bruciando dei ritagli di lamierino di rame e recuperando l'ossidulo formato in superficie. Il tipico colore bruno, il "manganese", bruciando della pietra di tale minerale; marrone scuro e gialli ferraccia con le varie ruggini di ferri vecchi e tubi da stufa bruciati e rugginosi. Giallo chiaro con ruggine ottenuta tenendo in bagno in acqua salata della reggetta acciaiosa da imballaggio.

La base della produzione non era l'artistica, ma oggetti di uso pratico: piatti, tazze da caffè e da the, caffettiere, thejere, boccali, pentole e tegami, e soprattutto "fingial" (tazzine senza manico per il caffè alla turca) molto richiesti sul mercato, che però non li accettava di buon grado perché gialli e molto rustici rispetto a quelli tradizionali di terraglia bianca e di porcellana da sempre importati dall'Italia, Cecoslovacchia, India e Giappone.

Qualche pezzo artistico, sia pure di sapore rusticano, l'ho fatto saltuariamente, e dati i procedimenti ed i materiali primitivi usati, hanno un carattere arcaico molto interessante.

Svelato da me "il segreto" per produrre lo smalto, altri si accinsero a far ceramica; finita la guerra e ricominciate le importazioni, non ne è rimasta traccia.

Nel 1945 fui invitato dal Ministero dell'Industria e Commercio del Governo Etiopico ad istituire il reparto ceramico alla scuola industriale sita in zona di Kolfè borgata di Addis Abeba.

Ancora una volta la questione più importante era l'argilla che nella struttura adatta non esiste o per lo meno è molto rara. Dopo varie ricerche ne trovai della discreta in fondo al villaggio di Caccianì alla periferia di Addis Abeba. Pur essendo molto pulita perché evidentemente prodotta da decomposizione di rocce feldspatiche e non da sedimentazioni, aveva un forte ritiro in essiccamento e lavorata a stampo si fendeva fino a sbriciolarsi. Era troppo "grassa".

Per correggerla usai come sgrassante la sabbia bianca di Filoha (attorno alla sorgente di acque termali nella zona industriale di Addis Abeba) che tutti chiamavano "caolino" per il suo colore bianco.

Ottenni un buon impasto che mi diede un cotto resistente, sia foggiato alla ruota che a stampo e che riteneva molto bene lo smalto.

Il vasellame era foggiato alla ruota da due ragazzi eritrei che avevano lavorato con me all'Asmara ed a cui io stesso avevo insegnato il lavoro della ruota. I piatti, tazze, "fingial", portacenere ecc., venivano prodotti al tornio meccanico fatto costruire da me e con gli stampi di gesso.

Per gli smalti e colori non feci che ripetere i procedimenti sperimentati all'Asmara.

I forni, sia all'Asmara che ad Addis Abeba erano costruiti all'antica con normali mattoni da costruzione; camera di cottura e sottostante focolaio. La cottura era fatta con legno di eucalipto.

Per contrasti interni ai Ministeri interessati, la scuola cessò di esistere nel 1950.

Dario Poppi