Amedeo Guillet, l’eroe dai mille volti: dalla leggenda alla storia!

Storia militare


Nato da una nobile famiglia piemontese e capuana, frequentò l’Accademia Militare di Modena, da cui uscì con i gradi di sottotenente di Cavalleria del Regio Esercito Italiano nel 1931. Per il servizio di prima nomina venne assegnato al reggimento “Cavalleggeri di Monferrato”, dimostrando ben presto spiccate qualità militari e, soprattutto, di cavaliere.
La sua austera maschera di cavaliere senza macchia e senza paura e la sua integrità morale lo hanno accostato al don Chischotte, cavaliere dalla lancia spuntata e dalla cavalcatura asmatica, pronto a battersi contro le iniquità, l’ingiustizia, l’amoralità, la cultura d’accatto. Lo stesso Guillet riconoscendosi nel personaggio di Cervantes lo ammira: per la sua fede nei principi della giustizia, dell’onestà e dell’altruismo, condensati nelle regole della Cavalleria

La campagna d’Etiopia (1935-1936)
Fu in Libia presso un reparto di Spahis. Nell’ottobre del 1935 partecipò, come comandante di plotone, alle prime azioni della guerra di Etiopia. Il 24 dicembre dello stesso anno venne ferito gravemente alla mano sinistra durante la battaglia di Selaclaclà. Al termine delle ostilità, il 5 maggio del 1936, venne decorato a Tripoli dal Maresciallo d’Italia Italo Balbo per il suo esemplare e coraggioso comportamento in combattimento.
Fidanzato da tempo con la cugina, Beatrice Gandolfo, si rifiutò di sposarla, pur amandola intensamente, per non dare adito ai malevoli di pensare che lo facesse solo per ottenere la promozione al grado di capitano; infatti, erano da poco entrate in vigore alcune rigide normative che prevedevano per i dipendenti pubblici l’obbligo di essere coniugati per poter essere promossi ad incarichi e mansioni superiori.

La guerra civile spagnola.
Nell’agosto del 1937, accettò la proposta del generale Luigi Frusci di seguirlo nella guerra civile spagnola, in cui ebbe la possibilità di distinguersi particolarmente nel combattimento di Santander e nella battaglia di Teruel, dove operò prima al comando di un reparto carri della divisione “Fiamme Nere” e poi alla testa di un tabor di cavalleria marocchina. Dopo un breve periodo di convalescenza in Italia, venne trasferito in Libia al comando del VII squadrone Savari, deluso dalla mancata promozione al grado di capitano promessagli dal generale Frusci al rientro dalla guerra di Spagna.

In Africa Orientale
Poco prima dell’ingresso dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale, Guillet venne inviato in Eritrea e nominato Comandante del Gruppo Bande Amhara, primo esempio di unità militare multinazionale, forte di 1700 uomini di origine etiope, eritrea e yemenita inquadrati da Ufficiali italiani. L’unità aveva la consistenza di un reggimento e avrebbe dovuto essere comandata da un Colonnello, mentre lui era solo tenente. Il compito assegnato al Gruppo di Guillet era di operare, in massima autonomia e libertà d’azione, contro il nemico che infestava la regione nord-occidentale dell’Eritrea.
Nel 1939, durante un combattimento contro la guerriglia nella regione di Dougur Dubà, il tenente Guillet costrinse il nemico ad uno scontro in campo aperto. Durante una delle cariche, il suo cavallo venne colpito ed ucciso. Immediatamente, Guillet ordinò al suo attendente di dargliene un altro. Quando anche il secondo quadrupede fu colpito, trovandosi appiedato, si mise ai comandi di una mitragliatrice e sparò agli ultimi ribelli rimasti sul campo di battaglia. Per questa azione, “alto esempio di eroismo e sprezzo del pericolo”, gli venne conferita la Medaglia d’argento al Valor Militare dalle autorità italiane.
I suoi soldati indigeni, invece, lo soprannominarono “Comandante Diavolo” convinti che godesse di una sorta di immortalità. Ben presto le gesta belliche di Guillet divennero oggetto di discussione negli esclusivi circoli di occidentali di Asmara e Adua, mentre la fama del Comandante Diavolo si diffondeva rapidamente in tutta l’Africa Orientale. In particolare, si fantasticava sullo stile di comando “democratico” (per l’epoca) del giovane tenente, che trattava i soldati indigeni con dignità e rispetto, dando loro massima responsabilità e la possibilità di mantenere e curare i rispettivi usi e costumi.
Anche nei confronti degli avversari catturati e delle popolazioni locali con cui entrava in contatto durante le attività operative tenne sempre un comportamento rispettoso e leale, da gentiluomo d’altri tempi.

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Il Capitano Diavolo


La battaglia di Agordat
La sera del 20 gennaio 1941, il tenente Guillet rientrò al forte di Cheru dopo una lunga ed estenuante attività di pattugliamento del territorio, ma gli venne ordinato di ripartire immediatamente per affrontare gli inglesi della Gazelle Force che minacciavano di accerchiare migliaia di soldati italiani in ritirata verso Agordat. L’improbo compito attribuitogli era di ritardare di almeno 24 ore la manovra dell’avversario, costringendolo a fermarsi nella piana tra Aicotà e Barentù. All’alba del 21 gennaio, dopo una furtiva manovra di aggiramento, il Gruppo di Guillet caricò il nemico alle spalle, creando scompiglio tra i ranghi anglo-indiani. Si trattò di uno spettacolo impressionante e, al contempo, incredibile: Guillet e i suoi uomini attaccarono, armati di sole spade, pistole e bombe a mano, le truppe appiedate e le colonne blindate inglesi. Dopo essere passati illesi tra le sbalordite truppe avversarie, il Gruppo tornò sulle posizioni iniziali per caricare nuovamente. Questo diede tempo agli inglesi di riorganizzarsi e di sparare ad alzo zero verso i cavalieri di nuovo all’attacco. In particolare, alcune pattuglie blindate inglesi iniziarono a dirigersi verso il fianco e alle spalle dello schieramento di Guillet, minacciando di accerchiare il manipolo di soldati a cavallo. Il tenente Roberto Togni, Vicecomandante del Gruppo, effettuò allora una mortale “carica di alleggerimento” con il suo plotone di trenta indigeni, per consentire al grosso del Gruppo di sganciarsi indenne. All’ordine di “Caricat!” il plotone, con il Togni in testa, si gettò su una colonna di carri “Matilda”, che aprirono il fuoco falciando mortalmente tutti gli uomini e i cavalli. Quel sacrificio permise, tuttavia, al resto delle truppe di Guillet di sganciarsi conseguendo appieno l’obiettivo: le truppe italiane in ritirata erano al sicuro dentro le fortificazioni di Agordat. Guillet pagò un alto prezzo per questa battaglia: 800 tra morti e feriti e la perdita del suo grande amico Togni. Fu quella l’ultima carica di cavalleria nella storia militare dell’Africa. L’ufficiale britannico che subì l’assalto in seguito così descrisse l’avvenimento:
« Quando la nostra batteria prese posizione, un gruppo di cavalleria indigena, guidata da un ufficiale su un cavallo bianco, la caricò dal Nord, piombando giù dalle colline. Con coraggio eccezionale questi soldati galopparono fino a trenta metri dai nostri cannoni, sparando di sella e lanciando bombe a mano, mentre i nostri cannoni, voltati a 180 gradi sparavano a zero. Le granate scivolavano sul terreno senza esplodere, mentre alcune squarciavano addirittura il petto dei cavalli. Ma prima che quella carica di pazzi potesse essere fermata, i nostri dovettero ricorrere alle mitragliatrici»
Guillet partecipò, alla testa di quello che rimaneva del suo Gruppo ormai appiedato, anche alle battaglie di Cochen e Teclesan, prima della caduta di Asmara avvenuta il 1º aprile 1941.
Persa Asmara, Guillet capì che l’unico modo per aiutare le truppe italiane operanti sul fronte nord-africano era quello di tenere impegnati quanti più inglesi possibile in Eritrea. Il 3 aprile 1941, Guillet prese la sua decisione: se Roma avesse ordinato la resa, lui avrebbe continuato in proprio la guerra contro gli inglesi in Africa Orientale. Spogliatosi dell’uniforme italiana e assunta definitivamente l’identità di Cummandar es Sciaitan (Comandante Diavolo), radunò attorno a sé un centinaio di suoi fedelissimi ex-soldati indigeni (ancora una volta un mélange di etnie e religioni) e iniziò una durissima guerriglia contro le truppe inglesi.
La sua leggenda crebbe a dismisura e gli inglesi scatenarono un’imponente “caccia all’uomo”, mettendogli alle costole le migliori risorse di intelligence disponibili. Fu fissata una taglia di oltre mille sterline d’oro, ma Guillet non fu mai tradito, neanche dai capi tribù precedentemente in guerra con gli italiani, che, anzi, più volte gli offrirono rifugio e copertura.
La guerriglia dell’ormai capitano Guillet costò cara agli inglesi: per quasi otto mesi egli assaltò e depredò depositi, convogli ferroviari ed avamposti, fece saltare ponti e gallerie rendendo insicura ogni via di comunicazione. Tuttavia, verso la fine di ottobre 1941, i suoi ranghi si erano troppo assottigliati e lo scopo della sua missione non era più realisticamente perseguibile. In particolare, la fortuita cattura del suo cavallo grigio Sandor da parte del Maggiore Max Harari dell’intelligence britannica, responsabile delle attività di ricerca di Guillet, gli fece capire che non avrebbe potuto continuare oltre in quella sorta di guerra privata. Inoltre si ammalò di malaria ed oltre alle ferite di combattimento doveva sopportare anche le crisi di febbre malariche. Radunò quello che restava della sua Banda, ringraziò i suoi fedelissimi promettendo loro che l’Italia avrebbe saputo ricompensarli adeguatamente e si diede alla macchia.
Si installò alla periferia di Massaua dove assunse la falsa identità di Ahmed Abdallah al Redai, lavoratore di origini yemenite. Si trasformò in un autentico arabo, grazie anche alla perfetta conoscenza della lingua, studiò il corano ed abbracciò (per sola convenienza di sopravvivenza, infatti quando gli inglesi fecero una retata in un suo rifugio e riuscirono a tenerlo sotto tiro, lui continuò a camminare lentamente verso la collina sovrastante il rifugio, e un suo fedelissimo convinse i soldati inglesi che in realtà fosse un musulmano sordo che stava andando a pregare) la religione musulmana. Per racimolare i soldi necessari per imbarcarsi verso lo Yemen, grazie al contatto con dei contrabbandieri, disimpegnò lavori umili per vivere: fu scaricatore di porto, guardiano notturno e acquaiolo.
Seguito dal fido Daifallah, suo ex attendente, tentò una prima volta di attraversare il Mar Rosso su un sambuco di contrabbandieri, ma venne depredato, buttato in mare ed abbandonato nel deserto eritreo. Dopo essere stato selvaggiamente picchiato da un gruppo di pastori nomadi, fu salvato da un cammelliere che lo ospitò per lungo tempo nella sua capanna e che gli offrì di restare a vivere con lui prendendo per moglie sua figlia. Ma Guillet, desideroso di rientrare in Italia, riuscì a beffare gli inglesi ancora una volta: spacciandosi come parente del cammelliere, si fece rilasciare un lasciapassare per lo Yemen dal Governatore inglese. La traversata fu semplice, ma giunto nel porto di Hodeida, venne arrestato e rinchiuso in prigione perché sospettato di essere una spia al soldo degli inglesi. Quando gli inglesi riuscirono a rintracciarlo chiesero all’imam yemenita di estradarlo, esso si incuriosì e invitò nella sua reggia Amedeo, e dopo aver ascoltato tutte le sue esperienze e avventure provò un tale rispetto e desiderio di onorare il valoroso che lo nominò palafreniere presso la guardia dell’Imam Yahiah, sovrano yemenita; le sue capacità ippiche gli salvarono ancora una volta la vita: L’Imam lo prese a ben volere, lo elevò al rango di “Gran Maniscalco di Corte”, gli fu amico sincero e lo nominò precettore dei propri figli. Guillet divenne anche responsabile ed istruttore delle guardie a cavallo yemenite e trascorse più di un anno a corte.

Il rientro in Italia
Nel giugno del 1943, nonostante le preghiere dell’Imam affinché restasse per sempre a corte, tornò a Massaua e beffò ancora una volta gli inglesi: riuscì ad imbarcarsi su una nave della Croce Rossa Italiana fingendosi un civile italiano divenuto pazzo durante la guerra. Dopo quasi due mesi di navigazione, il capitano Amedeo Guillet giungeva finalmente a Roma il 3 settembre 1943 con una nave della Croce Rossa.
Promosso Maggiore per meriti di guerra, domandò denaro, uomini ed armi per tornare nel Corno d’Africa e riprendere la guerra clandestina contro gli Alleati. I tempi, tuttavia, erano cambiati: la conoscenza delle lingue e, soprattutto, l’esperienza acquisita sul campo fecero sì che Guillet fosse assegnato al Servizio Informazioni Militare ed impiegato in missioni ad alto rischio nell’Italia occupata dalle truppe anglo-americane.
L’armistizio dell’8 settembre lo colse di sorpresa a Roma. Attraversò prontamente e rocambolescamente la linea Gustav e giunse a Brindisi, dove si mise a disposizione del Re. Nel settembre del 1944 coronò finalmente il suo sogno d’amore sposando a Napoli l’amata Beatrice Gandolfo.
Continuò ad operare nel Servizio Informazioni del ricostituito Esercito Italiano per poi svolgere, dal 25 aprile 1945, l’incarico di agente segreto. Fu proprio in tale veste che riuscì a recuperare la corona imperiale del Negus d’Etiopia, sottraendola furtivamente alla Brigata partigiana “Garibaldi” che, a sua volta, l’aveva confiscata alla Repubblica di Salò. La corona fu poi restituita al Negus e rappresentò il primo tangibile segnale di riappacificazione tra Italia ed Etiopia.

Nel dopoguerra
Alla fine delle ostilità, dopo la sconfitta della monarchia e la vittoria della Repubblica nel Referendum del 1946, Guillet fedele al proprio giuramento di militare verso la Corona dei Savoia, rassegnò le proprie dimissioni dall’Esercito Italiano. Presentandosi al Re Umberto II e manifestandogli la sua intenzione di abbandonare il Paese, fu tuttavia bonariamente ma anche sonoramente redarguito perché il Re gli ricordò che prima della Casa Reale veniva l’Italia e la sua indipendenza.

La carriera diplomatica
Laureatosi in Scienze Politiche, Amedeo Guillet partecipò e vinse il concorso pubblico per la carriera diplomatica nel 1947, rifiutando i trattamenti di favore offertigli per spirito di correttezza[3]. Nel 1950 venne destinato, come Segretario di legazione, all’Ambasciata del Cairo con l’Ambasciatore Prunas. Nel 1954 fu nominato Incaricato d’Affari nello Yemen (dove il figlio del vecchio Imam lo accolse calorosamente dicendogli: “Ahmed Abdallah finalmente sei tornato a casa!”); nel 1962, nominato Ambasciatore, fu ad Amman, dove il re Hussein di Giordania era solito cavalcare insieme a lui e tributargli l’appellativo di “zio”, espressione, nella cultura araba, di massima deferenza e, al contempo, di familiarità.
Nel 1967 è ambasciatore in Marocco. Durante un ricevimento ufficiale, coinvolto in una sparatoria causata da un tentativo di colpo di stato, riuscì, con la sua esperienza militare, a mettere in salvo alcuni rappresentanti diplomatici che erano rimasti sotto il fuoco. La Repubblica Federale di Germania gli concesse, per l’atto di salvataggio del proprio Ambasciatore, la Gran Croce con stella e striscia dell’Ordine al Merito della Repubblica. Nel 1971, fu inviato come Ambasciatore d’Italia in India, entrando ben presto nel ristrettissimo entourage dei confidenti del Primo Ministro Indira Gandhi. Nel 1975, con il collocamento a riposo per limiti d’età, concluse la sua carriera diplomatica.

Il giudizio di Montanelli
Nella risposta a un lettore dedicata all’avventurosa esistenza di Amedeo Guillet, il celebre giornalista Indro Montanelli scrisse: “Se, invece dell’Italia, Guillet avesse avuto alle spalle l’impero inglese, sarebbe diventato un secondo Lawrence. È invece soltanto un Generale, sia pure decorato di medaglia d’oro, che ora vive in Irlanda, perché lì può continuare ad allevare cavalli e (a quasi novant’anni) montarli. Quando cade e si rompe qualche altro osso (non ne ha più uno sano), mi telefona...”

Gli anni recenti
Nel 2000, al seguito dello scrittore Sebastian O’Kelly, si è recato in Eritrea nei luoghi che lo avevano visto giovane tenente alla testa delle Gruppo Bande Amhara. Venne ricevuto all’Asmara dal Presidente della Repubblica eritrea con gli onori riservati ai capi di stato. Tornò a trovare il cammeliere che lo ospitò cinquant’anni prima, il cammelliere non lo riconobbe, ma gli racconto la storia di due moribondi che curò e ospito, mandati da Allah, e che un giorno sarebbero tornati per ricostruirgli il suo pozzo. Amedeo non svelando la sua identità , prima di partire pagò un gruppo di manovali per ricostruire il pozzo al vecchio cammelliere.
Il 20 giugno 2000 gli viene conferita la cittadinanza onoraria dalla città di Capua che egli definisce “altamente ambita”.
Il 2 novembre 2000, il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi conferisce ad Amedeo Guillet la Gran Croce dell’Ordine Militare d’Italia, massima onorificenza militare italiana.
In occasione del compimento del suo centesimo compleanno nel 2009, Mediaset e la Rai gli dedicarono un servizio durante il telegiornale. Amedeo Guillet, il comandante Diavolo, si è spento a Roma il 16 giugno 2010 alla veneranda età di 101 anni.