Mal d’Africa: parliamone ancora

 

Dopo aver letto lo stralcio da “Storia illustrata” (Numero speciale “le guerre degli italiani in Africa”) febbraio 1966, Anno X, N. 99, apprso sul Mai Taclì, luglio-agosto 1982, chiunque di noi volesse parlarne ancora, troverebbe il proprio linguaggio inadeguato.

É vero che in Africa sono andati uomini di ogni estrazione, poveri o ricchi, richiamati dal miraggio  di un miglioramento delle proprie condizioni e sulla spinta di uno spirito avventuroso più forte della inconscia paura dell’ignota terra. Perché 100, 50 anni fa quella terra era veramente ignota. Pensate agli italiani che lasciarono la Patria nel 1896 e fino agli anni 30, prima della guerra italo-etiopica! Erano poveri agricoltori, spesso analfabeti, che fuggivano verso terre lontane piene di promesse. E qui l’Africa-continente si racchiuse tutta in quel litorale Massaua-Assab e in quell’entroterra fatto di montagne vulcaniche e di plateau senza acqua e senza vegetazione, su uno dei quali nacque la città di Asmara. Quegli agricoltori vissero lì per molti anni e vi crebbero i loro figli in una lotta impari con una natura ingrata ma stupenda per la sua cruda bellezza di paesaggio lunare, come oggi possiamo chiamare.

Essi amarono quella terra e se è vero che si amano i luoghi in cui si è maggiormente sofferto, la spiegazione è proprio qui. L’essere umano lotta contro gli elementi, contro il pericolo della rinuncia al proprio disegno ed è in effetti il superamento di questo sentimento che lo rivaluta e lo spinge lontano.

Noi che rappresentiamo la seconda e terza generazione di quei nostri pionieri arrivammo in Asmara quando già esistevano condizioni di vita buone; abbiamo potuto studiare, viaggiare, conoscere, esplorare il bassopiano orientale ed occidentale, trascorrere giornate deliziose nelle “concessioni” agricole (solo noi le chiamavamo concessioni in onore alla burocrazia del tempo), gustare i frutti del lavoro di anni e anni di quei nostri pionieri-agricoltori.

E per noi l’Africa si riassume e circoscrive in quella fetta di terra adagiata sul Mar Rosso che si chiama Eritrea. Tuttavia l’Eritrea ha in se stessa ed in piccolo, tutti gli elementi caratteristici dell’Africa tutta; il deserto da Massaua a Dongollo, con la sua vegetazione di acacie ombrellifere, sotto le quali gli armenti trovano riparo dal sole e dal freddo della notte, le prime pendici ubertose fino a Nefasit e poi i picchi delle montagne piene di sassi e di euforbie, regno dei babbuini, intercalate da gole che, di primo mattino sono bianche di nebbia come enormi ghiacciai e che si aprono al sole d’un tratto non appena i suoi raggi dorati giungono oltre  le creste dei monti e le illuminano mettendo a nudo e segreti dei precipizi. E si vedono donne cariche di legna secca arrampicarsi faticosamente sui fianchi scoscesi dei precipizi nel compimento di un gesto quotidiano che assicura loro la sopravvivenza attorno ad un fuoco nelle notti gelide e nello spazio angusto dei tukul. E poi vi sono fiumi a carattere torrenziale, le cui piene hanno tutta la furia degli elementi, i bacini imbriferi, gli invasi naturali e artificiali, le pianure coltivate a cereali, i boschetti di eucaliptus, le sorgenti d’acqua da cui partono gli asinelli carichi di ghirbe, le foreste di palma dum, i buganville rosa carico, i sicomori e gli alberi del pepe.

Per tanti italiani, questa è l’Africa e per quest’Africa si soffre di nostalgia. Ma si soffre anche per il conquistato benessere di quegli anni e per il forzato abbandono di tutto ciò per motivi indipendenti dalla propria volontà. Tra questi ve ne sono molti che soffrono di rimpianti rifiutando decisamente ogni altra esperienza di vita altrove. Altri invece, pur provando nostalgia, considerano l’arco di vita trascorso in Eritrea, come un dono offerto loro dalla sorte in un dato momento della loro esistenza.

Direi che io sono tra questi ultimi. Negli anni che vanno dal 1936 al 1956 quelli di noi che oggi hanno figli di trent’anni ed oltre, avevano l’età dell’adolescenza o della prima gioventù. Con la fine della seconda guerra mondiale e l’inizio della ricostruzione in tutto il mondo industrializzato, quegli adolescenti del tempo si sono imbattuti in occasioni di esapnsione e crescita personale uniche nel loro genere; l’apertura verso altre culture, l’accettazione dei £diversi” sia di colore che di condizione sociale, ha reso i loro spiriti duttili e propensi al mutamento di costume. Nell’interazione tra i popoli di diverse culture sta appunto lo scambio inconscio di elementi del vivere, che fa abbattere barriere ataviche di diffidenza ed abbracciare nuove frontiere della vita comunitaria.

Perciò mi trovo spesso a rispondere a chi mi chiede se  è vero che soffro di mal d’Africa, che il mio sentimento è il rimpianto di un periodo felice della vita. E dico anche perché lo considero felice: perché il tramonto dei pregiudizi e del costume repressivo in famiglia e fuori, mi gettava nel mondo che era tutto da vivere. Vi erano dei limiti, ovviamente, alla libertà; principalmente se la libertà individuale sfociava in abuso nei confronti del prossimo, oppure presentava comportamenti individuali che urtavano le leggi del vivere comune per la loro spregiudicatezza e assenza di riguardo; tuttavia tali limiti non erano imposti, ma scaturivano dalla coscienza e come tali erano frutto di una libera determinazione, razionalmente controllata.

A parità di livello sociale, quanti di noi si sono potuti permettere laggiù delle cose che altri in Italia non potevano nemmeno sognarsi? Sicuramente tutti. In più, il rientro in Patria, ha costituito un grosso ridimensionamento; i più fortunati, quelli che sono tornati con grosse fortune e con la possibilità di investire in altre attività, si sono inseriti meglio; gli altri non avevano che due strade da percorrere: o piangere “sul latte versato” o rimboccarsi le maniche e lavorare sodo per darsi una vita decente.

Perciò, mal d’Africa sì, ma come spinta verso ideali e prospettiva di vita diversi, e non il solo, inutile rimpianto del passato che impedisce e rallenta le capacità potenziali di ognuno di noi. Pertanto io, e tanti altri come me, che viviamo a Roma, in una città tanto bella ma tanto grande, magari senza contatti umani se non quando sono programmati in anticipo per cui appaiono come un evento da non perdere, non abbiamo altro che il lavoro e la famiglia, e se ogni tanto soffriamo di mal d’Africa, ne abbiamo pure il diritto. E non accetto la commiserazione gratuita di chi non ha avuto quell’esperienza di vita positiva dalla quale invece ognuno di noi ha tratto le forse necessarie al reinserimento in Patria.

Gabriella Gasparini

(Mai Taclì N. 5-6 1982)