UNA CRITICA MERITATA

Parte Prima

Commenti e contestazioni al libro della scrittrice inglese Michela Wrong dal titolo
I didn’t do it for you.” Come le nazioni del mondo hanno usato ed abusato di un piccolo stato africano”.
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L’edizione in lingua italiana è della Casa Editrice Colibrì (Milano, agosto 2017)

Premessa

Si tratta della storia dell’Eritrea dal periodo coloniale italiano fino ai tempi nostri. Lasciando da parte le tante pagine piene di notizie non riguardanti l’Italia e gli Italiani, che possono anche essere interessanti, desidero soffermarmi solo sulla parte dedicata alla presenza dell’Italia in Eritrea e soprattutto ad un mio carissimo amico italiano, il signor Filippo Cicoria.

Insulti di enorme gravità, al suo indirizzo, oltre ad affermazioni basate sulla malafede e l’ignoranza che mi hanno colpito profondamente non solo come Italiana, ma anche e forse soprattutto, come Italiana d’Eritrea. Donde le mie critiche che dividerò in due parti, una dedicata al primo capitolo intitolato “L’ultimo italiano”e l’altra alla presenza italiana in Eritrea, in generale.

Quest’ultima parte pone il lavoro della Wrong tra quei libri scritti per suscitare odio e rancore, premessa di azioni violente di vendetta che, per menti malate, potrebbero sfociare in un vero e proprio terrorismo. Tutto ciò senza contare la superficialità delle notizie propriamente storiche, molte delle quali copiate dai vari libri dello storico Angelo Del Boca intitolati Gli Italiani in Africa Orientale.

Non sa la signorina Wrong che il nostro “storico”, messo dinanzi ad alcune verità relative alla guerra italo-etiopica, dovute alle ricerche della giovane studiosa Dottoressa Federica Saini Fasanotti, dovette riconoscere di “aver truccato la storia”? Legga a tal proposito l’articolo pubblicato dal ”Corriere della Sera” il 6 gennaio 2011. Non aggiungo altro. E passo alle mie critiche.

 

La triste fine dell’ultimo italiano di Massaua

“L’ultimo italiano”di Massaua è Filippo Cicoria, ormai defunto, che la signorina Wrong si è sentita libera di ingiuriare in ogni maniera. Tanto, avrà pensato, a chi potrebbe interessare? Cicoria è morto e degli eredi non se ne sa nulla. E invece nella vita non si sa mai cosa può accadere ed eccomi qua a contestare le menzogne e i vergognosi insulti della signorina Wrong.

A leggere la sua descrizione di Filippo Cicoria ci si immagina di trovarsi di fronte a”un acido vecchiaccio, seduto in mezzo a vecchie ferraglie, su un letto sul quale gabbie di pollastre lasciavano cadere una bianca lanugine”(ossia le piume), mentre due papere si azzuffavano tra le gambe di Filippo e della giornalista. Questo indicibile guazzabuglio di pollame è quanto di più incredibile di possa scrivere! Che fantasia!

Se la signorina Wrong ha fatto altrettanto in altre parti del suo libro, stiamo freschi!! Scrive l’autrice che Cicoria era ”nero come un indigeno”. Non è vero! Era invece “abbronzato” come qualunque altro meticcio. Inoltre sopra la testa aveva una larga tettoia di legno dalla quale penzolavano alcune lampadine elettriche. Dunque colore abbastanza chiaro e niente pollastre! Ne fa fede la mia fotografia con Filippo.

In quanto ai rottami di ferro, essi erano accatastati in fondo al cortile e coperti da un ampio telo (vedasi foto del suo magazzino).

E ancora. La signorina Wrong, recatasi al cimitero di Asmara per dare uno sguardo alla cappella funeraria della famiglia Cicoria, su indicazione di Filippo, non ha saputo dire altro che la porta era chiusa con un fil di ferro (ohibò!) e che gli antenati Cicoria mostravano nella foto un aspetto arcigno. Conclude esprimendo l’improbabilità che Filippo potesse essere sepolto nella sua cappella. E perché mai? Neppure dinanzi alla morte la Wrong riesce a vincere la sua gratuita malevolenza.

A questo punto ritengo mio dovere tracciare il profilo reale del mio defunto amico: Cicoria, meticcio, era nipote e figlio di due agricoltori italiani, i fratelli Antonio e Vito Cicoria, concessionari agricoli in zona Hametzi (Medrisien) nei pressi di Asmara. Il loro podere fu uno dei primi ad essere saccheggiato poco dopo l’occupazione britannica di Asmara (1 aprile 1941). Furono probabilmente gli Eritrei dei villaggi vicini, ai quali gli Inglesi avevano fatto credere che avrebbero potuto impadronirsi dei beni degli Italiani, se avessero perduta la guerra.

Stessa sorte, nello stesso anno, era toccata, in zona Addì Gombolò, nei pressi di Asmara, alla concessione di Raul Di Gioacchino il quale nell’attacco aveva perso la vita. Cominciavano così quelle azioni vandaliche culminate tra il 1947 e il 1952 in vero e proprio terrorismo.

Dunque i Cicoria erano pionieri agricoli e non costruttori di strade inviati da Roma, come vorrebbe la Wrong, la quale dice qualunque cosa pur di scrivere. E che vuol dire infatti “suo nonno era un imprenditore edile inviato da Roma per costruire strade e dighe, nell’inutile intento di ottenere, una volta per tutte, la fiducia dell’Imperatore abissino Menelik. Ma dove l’ha trovato? Filippo Cicoria non era neppure ”un vecchio e macilento relitto umano dalle lunghe orecchie e i denti mancanti” e non era neppure ”decadente e devastato, come il capitolo conclusivo della vecchia storia coloniale italiana.”

Egli era un vecchio signore, certo non bello, ma degno di rispetto. Forse non fu mai un santo, fu invece un personaggio particolare, diverso dal prototipo di medio borghese italiano o straniero che sia. Intelligentissimo e dignitoso, era vissuto del suo lavoro onestamente senza mai dare fastidio a nessuno. Tuttavia ciò che lo distinse sempre fu la sua grande italianità che dimostrò fin dall’adolescenza.

Si era nel 1941 allorché, perduta la guerra, gli Inglesi vincitori ammassarono prigionieri italiani militari e civili anche nel campo di concentramento di Massaua, lasciandoli spesso senza cibo e senz’acqua, in quel caldo infernale, Filippo Cicoria, che abitava a Massaua, era appena quattordicenne allorché, conosciuto il triste stato di quei suoi connazionali, aiutato solo dal suo coraggio e dalla sua grande forza fisica, portava loro, come e quando poteva, cibo e acqua.

Negli anni seguenti, con la sua intelligenza e la sua onestà, si conquistò la stima dei suoi datori di lavoro. Resosi indipendente si diede al commercio di pezzi di ricambio di vario genere che esercitava in un suo magazzino attiguo alla sua villetta dinanzi alla quale si estendeva un ampio cortile ove, ultimamente, era allevato pollame di ogni genere. Il tutto prospiciente il mare.

Gli affari andavano bene. Aiutava Filippo, nell’esercizio della sua attività commerciale, la conoscenza di ben sei lingue, ossia l’italiano, l’inglese, il trigrino, il tigré, l’arabo e l’amarico.

Fu stimato ed apprezzato anche dalle nostre autorità al punto che, per un certo periodo, fu Console Onorario d’Italia a Massaua.

Passarono gli Inglesi e vennero gli Etiopici, prima il Negus e poi Menghistu, ed infine gli Eritrei. Ma Filippo non smise mai di lavorare non perché fosse un voltagabbana, come vorrebbe la signorina Wrong, ma per le sue innate capacità tecniche ed intellettuali.

Fu solo qualche tempo fa che le autorità eritree decisero di porre fine alla sua attività commerciale. Il magazzino fu chiuso ma gli fu lasciata la villetta ed il cortile. Con grande dignità Filippo vi si ritirò accatastandovi la sua merce e creandosi una comoda alcova che, come ho detto, era composta da un letto, da un’ampia tettoia di legno e da un tavolo sul quale era poggiato il suo telefono e le cose più utili. Dentro casa si sentiva soffocare.

Erano con lui due donne eritree, una scura e l’altra chiara di nome Meleté. Dalla scura, che forse si chiamava Zaudì, che con lui conviveva da circa vent’anni, aveva avuto un figlio, Sirio, ormai diciottenne. Dalla chiara era nato Guarino, quasi bianco e biondiccio. Quando conobbi Filippo aveva circa dieci anni e studiava, se non sbaglio, nel collegio dei Padri Francescani. 

Le due eritree, che Filippo manteneva nel miglior modo possibile, malgrado le sue resecate finanze, erano, come si suol dire, contente e soddisfatte. Era una vita semplice, quasi spartana, ma cibo, alloggio e vestiario non mancava loro. Se Filippo le avesse lasciate andar via avrebbero potuto al massimo divenire inservienti in qualche casa privata o, peggio ancora, in qualche “tecceria”. Da Filippo erano invece “padrone di casa”. Inoltre, a spese di Cicoria, allevavano i figli che, altrimenti, avrebbero potuto accrescere le schiere di tanti meticci abbandonati, come spesso era accaduto in passato ed accadeva al presente.

E dunque, grazie alla generosità di Filippo, le due signore eritree vivevano tranquille e soddisfatte.

In genere le due donne andavano perfettamente d’accordo. Zaudì si occupava, insieme ad un vecchio guardiano meticcio, di nome Michele Arena, della pulizia esterna e del numeroso pollame; Meletè di Filippo e della casa, tenendoli in una pulizia più che totale. A tal proposito mi pare che il vecchio album fotografico mostrato dal mio amico alla Wrong non fosse per niente sudicio, come l’inglese vorrebbe far credere, ma pulito e in buono stato.

Oltre a quell’album Filippo aveva anche qualche libro, anch’esso pulito ed ordinato. Uno di questi (che io fotocopiai per il suo interesse storico) era ed è intitolato ”Pionieri di fede e civiltà in Eritrea e Regioni Limitrofe”del missionario cappuccino Ezechia da Iseo. Il contenuto consiste nella storia della Missione Cattolica in Eritrea, succeduta a quella Lazzarista. Vi si narra, tra l’altro, con una certa dovizia di particolari, la permanenza di Monsignor Giustino De Jacobis, missionario lazzarista, ”l’Abuna Jacob” degli Eritrei e primo Prefetto Apostolico dell’Etiopia, oggi santo, e di Monsignor Massaia, non ancora Cardinale, in località Moncullo (Dogali), pianura sabbiosa e desolata a circa dieci chilometri da Massaua. Ivi era esistita una casa fatta costruire da Monsignor De Jacobis per la sua missione lazzarista. Aveva scelto quella località, facilmente raggiungibile dal mare, per sottrarre se stesso ed i suoi seguaci dalle persecuzioni del Negus Teodoro e dal capo della Chiesa Copta d’Etiopia: l’Abuna Salama.

Da notare che il De Jacobis non ebbe mai a soffrire di alcun maltrattamento o di persecuzioni da parte dei Musulmani che abitavano in quella parte della futura Eritrea.

Lo Jacobis stesso aveva abitato la casa di Moncullo per quattro mesi che furono di dolorosa malattia. Infatti il povero Abuna, sfinito dai suoi mali e dal caldo infernale, aveva accettato il consiglio dei confratelli di trovare un po’ di refrigerio nell’Altopiano. Tuttavia, giunto ad Halai (Barca), il suo organismo già debilitato non resse e morì il 31 luglio del 1860 dopo vent’anni di missione. Le sue spoglie riposano attualmente nella chiesetta di Hebo attuale sede dei Lazzaristi d’Eritrea.

Quanto alla casa di Moncullo, essa era in seguito andata in rovina e mai più ritrovata. Il suo ritrovamento si deve al nostro Filippo che andava particolarmente fiero della sua scoperta anche e soprattutto per la devozione che nutriva per il santo Jacobis.

E dunque, continuando nella descrizione del mio amico, è chiaro che egli era una persona più che normale e non “l’acido vecchiaccio che odiava il mondo intero”come vorrebbe la Wrong. Per quel che ricordo, se Filippo era scontento, lo era soprattutto per l’amministrazione eritrea. Diceva che quella etiopica era stata migliore.

Il giorno che ricevette “quella rompiscatole della giornalista inglese” ero anch’io a Massaua e posso deporre questa testimonianza, priva dei giri di parole usate della Wrong per i suoi fini denigratori. Quella visita aveva messo Filippo di cattivo umore. Non gli piaceva parlare di se stesso e proprio per questo volle “scioccare” la puritana inglesina con un linguaggio scurrile e rancoroso. Riuscì nel suo intento e lo dimostra ciò che la Wrong si è affrettata a scrivere, o trascrivere, per insaporire la sua descrizione del vecchio italiano.

Comunque, a parte la Wrong, la vita di Filippo scorreva tranquilla e serena. Di giorno svolgeva un piccolo commercio vendendo ai pastori Tigré e Rasciaida quei pezzi di ricambio che si potevano recuperare dai vecchi rottami. Le serate erano allietate dalla visita di amici, alcuni provenienti da Asmara, e talvolta da allegre cenette per le quali ognuno portava una gustosa vivanda. Tra gli amici di Asmara ricordo il dottor Luciano Dalmasso con la moglie somala Khadigia, l’ingegner Franco Tardivo con la sorella Mirella, la professoressa Paola Matteoda, nipote del famoso architetto Paolo Reviglio e dell’altrettanto famoso Carlo Matteoda, il creatore delle piantagioni di caffè nelle Pendici Orientali.

Oltre a loro, quand’era a Massaua, era sempre da Cicoria il signor Andrea Fedi, asmarino meticcio compito ed elegante, chiamato Uccio. Lo ricordo per la sua gentilezza e per l’affetto sincero che nutriva nei confronti di Filippo. Erano tutti Italiani del Tempo Passato ma non per questo “decadenti e devastati” bensì brave persone e stimati professionisti.

Nelle serate di Filippo, oltre agli Italiani, non mancavano gli amici Eritrei, asmarini e massauini. Tra di loro talvolta lo stesso sindaco di Massaua. Serate piacevoli nella brezza proveniente dal mare.

Filippo era felice, rideva e scherzava con le sue solite battute, come la nuova moglie di diciotto anni, che doveva sostituire Meleté ormai troppo vecchia. Ma la Wrong vi ha davvero creduto?

Il vecchio e caro amico continuava così le belle abitudini di convivialità che furono una delle caratteristiche della vita di noi Italiani d’Eritrea. A questo proposito non posso dimenticare due simpatici ed allegri cenoni organizzati a casa Cicoria per il Natale e il Capodanno del 2001-2002. Tra gli altri erano scesi da Asmara i coniugi Boveri e Manù Premjee, il cosiddetto “ultimo indiano d’Eritrea”, sempre avido di buone mangiate e di piacevoli ballate. Portò con lui una grande e bella torta al cioccolato che mangiammo con tanto gusto. Dal canto suo Filippo diede il meglio di sé stesso in allegria e calda ospitalità.

Ma quei due cenoni furono purtroppo gli ultimi. Infatti nel giugno del 2002 le autorità eritree comunicarono a Filippo la decisione di demolire tutti gli immobili di quella zona malgrado fossero in ottimo stato. Filippo non aveva scampo, doveva sgombrare. Mentre si preparava al trasloco era già iniziata la demolizione di tante belle costruzioni. Per Filippo ogni volta era come se un pugnale gli fosse stato conficcato nel cuore. E non poteva frenare le lacrime!

E venne anche per lui il momento di andar via. Chiese di trasferirsi a Moncullo, località di cui abbiamo già parlato. Gli pareva di essere protetto dal suo venerato Abuna Jacob. Sotto alcune enormi acacie ombrellifere fece sistemare quel che gli apparteneva insieme al solito letto, alla tettoia e al grande tavolo. Tutto come a Massaua ma così lontanamente diverso! Le notti buie, il vento che non portava il profumo del mare ma un pesante terriccio, perdute le serate con gli amici, privo del telefono che gli avrebbe permesso di non essere così solo e derelitto, era “tutto un pianto”. Meleté non riuscì a resistere ed un giorno andò via per non tornare.

Mi pare ancora di vederla, mentre con il suo mantello rosso svolazzante al vento, saliva lungo la piccola altura per attendere forse, sulla strada asfaltata, una macchina o un autobus. Filippo la guardava immoto, senza parole e senza lacrime che, forse, avrebbe versato poi insieme a tutta la sua disperazione! Zaudì era rimasta a Massaua in un appartamentino nell’orribile palazzo costruito dai Coreani, con il figlio Sirio, poiché doveva terminare le scuole superiori prima di recarsi in Italia per il servizio militare. Le due donne, finita la vita massauina, se ne erano andate. (Viva la fedeltà!) Filippo era ormai accudito unicamente dal vecchio Michele, rimasto con lui.

Io, abitando a Massaua, andavo ogni giorno a fargli visita a bordo della mia fortissima Panda 1000. Il suo eremo era situato proprio di fronte al ponte Menabrea, sulla destra scendendo, e tramite un viottolo abbastanza scorrevole, Filippo lo si raggiungeva facilmente. Mi pare un sogno che ciò sia veramente accaduto. Ero ancora giovane, o così mi sentivo, e lo scorrazzare per Massaua e dintorni, fotografando ed osservando, mi riempiva di allegria allorché ritrovavo le tracce della mia infanzia felice; ma triste e sconsolata quando mi imbattevo nelle rovine di ciò che era stata Massaua d’un tempo.

E triste e sconsolata lo ero allorché mi recavo dal vecchio Filippo. Egli, oltre le altre sue visibili disgrazie, era ridotto, come si suol dire, “al lumicino”. Infatti, i pochi soldi di cui disponeva a Massaua, si erano con il trasloco e la fine del piccolo commercio praticamente esauriti. E dunque malgrado le sue reticenze, gli portavo qualcosa da mangiare e un po’ di quattrini. Altrettanto facevano gli amici. Ad Asmara, presso la Casa degli Italiani di cui facevo parte, mi adoperai per fargli avere per lo meno una tenda, oltre ad un aiuto economico, anche se modesto, tratto dagli emolumenti governativi di cui disponeva la ”Casa”per i cosiddetti Italiani indigenti.

Ma non fu facile. Dopo reticenze e dinieghi, avevo forse ottenuto che lo si fornisse di una tenda, ma era ormai troppo tardi. Infatti Filippo aveva finito per cadere e si era rotto un femore. Avrebbe voluto andare in Italia per essere operato, ma nessuno se ne occupò. Cosicché il 15 maggio del 2004 lo portarono in ospedale. Volle passare dinanzi alla sua casa ma trovò solo macerie. Il suo pianto disperato mi pare ancora di udirlo. L’operazione fu terribile. Praticamente lo massacrarono. Tornò a Moncullo ma non per molto tempo e anche Filippo se ne andò, forse ai primi di giugno del 2004.

I funerali si svolsero ad Asmara nella Cattedrale. Tantissimi i fiori e le corone recanti scritte in italiano, tigrino ed arabo, offerte anche dagli amici di Massaua che vollero assistere in chiesa alla cerimonia funebre. Erano presenti l’Ambasciatore Emanuele Pignatelli con la gentile consorte. Mi fu chiesto di dire due parole. Ne riporto alcune.

“Filippo Cicoria è stato un uomo particolare, dall’intelligenza vivissima e dalla grande dignità e forza d’animo che lo hanno sorretto nei momenti più duri della sua esistenza specialmente in quest’ultimo tragico anno. Ma qui io voglio ricordarlo soprattutto per la sua italianità, senza per questo sminuire la parte eritrea della sua ascendenza e della sua discendenza, per le quali egli nutriva grande rispetto condiviso dalla sottoscritta. Termino con un messaggio orale affidatomi da Filippo per il nostro Ambasciatore: ho portato in alto, molto in alto, il buon nome dell’Italia e ne sono fiero”.

Povero Filippo che credeva ancora nell’Italia!! Ma dov’era questa Italia quando, tra le sabbie di Moncullo, moriva un povero Italiano? Un ambasciatore a proposito di un altro indigente, Giuseppe Pratò, che volevo aiutare, mi disse:”L’Ambasciata italiana non è un istituto di beneficienza”. Viva l’Italia!

Un bel corteo composto da tanti amici ed estimatori accompagnarono Filippo fino al nostro cimitero ove fu sepolto nella sua cappella di famiglia adornata di fiori e corone d’ogni specie. Il tutto organizzato e diretto da Uccio, l’amico fedele.

Alla porta, signorina Wrong, era stato inserito un chiavistello! Le va bene?...

Ecco la storia e la fine di un nostro povero connazionale. Indennizzi? Non credo che ciò esista nell’attuale legislazione dell’Eritrea. E i figli Sirio e Guarino dove saranno?

Rita Di Meglio

P.S. A parte scriverò le mie critiche a quanto dichiarato dalla signorina Wrong a proposito dell’Italia in Eritrea

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