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Vita e morte leggendarie del Negus Teodros 

Il Negus Teodros fu il primo tra i regnanti ad avere ambizioni imperiali moderne. Voleva contare e cercava aiuto, per questo, dall’Inghilterra ponendosi alla pari con la Regina Vittoria. Sperava in una alleanza per conquistare la Terra Santa, in un aiuto per avviare l’industrializzazione del proprio Paese. Ma l’Inghilterra non aveva questi interessi e non lo prendeva sul serio.
Il Negus allora pensò di risolvere il rapporto a modo suo e come si usa da quelle parti, catturò e tenne in ostaggio i cittadini britannici presenti in Abissinia. 
Dal testo di Storia di Franco Bandini: GLI ITALIANI IN AFRICA leggiamo di una avventura che nulla ha da invidiare alla letteratura inglese coloniale d’epoca….

ita1Molti i Notabili abissini in grado di conoscere del tutto le complicate relazioni che correvano tra i vari ras e le dozzine di capi locali, ma su tutti dominava sin dal 1885 il figlio di una umilissima venditrice di «kusso», l'antidoto abissino contro il verme solitario. Costui, da brigante, era divenuto governatore di provincia, s'era fatto chiamare Lij Kassai: poi aveva battuto uno alla volta tutti i ras vicini e lontani, e alla fine era stato coronato negus neghesti, ovverossia re dei re o imperatore, riunendo sotto il suo scettro non solo le provincie del nord-est, ma anche lo Scioa e lo Uollo Galla. Divenendo negus neghesti nel feb¬braio del 1855 dopo una ascesa meteorica, assunse il nome di Teodoro II e i due soprannomi di «Nerone d’Abissinia» e «Napoleone d'Abissinia».

È un vero peccato che la sua complessa personalità non ci sia mai stata descritta con minuzia, poiché Teodoro fu certa¬mente un grand'uomo: era di scorza durissima e risolveva ogni questione politica o diplomatica con una brutalità che avrebbe fatto arrossire un romano antico. Nel 1856 era venuto da lui il patriarca di Alessandria, David, mandato da Said pascià per gettare le basi di una specie di intesa cordiale.
Ma Teodoro aveva offeso così grossolanamente il venerabile abuna che questi, in un impeto di rabbia, aveva pronunziato seduta stante contro quel recalcitrante cristiano la scomunica maggiore. Tranquillissimo, Teodoro aveva estratto una delle sue grosse pistole, l'aveva appoggiata alla tempia di David e dolcemente gli aveva detto: «Padre, la vostra benedizione».

Assieme al ferocissimo carattere, Teodoro però manifestava i segni di una vera genialità. Introdusse nel suo impero leggi nuove, e proibì le più antiche ed orribili costumanze; cercò di industrializzare il paese, anche se la prima fabbrica fu impiantata soltanto per sfornare cannoni. Ma desta stupore ancora oggi che, in fondo, riuscisse davvero a costruirne. Nelle officine di Debra Tabor nacquero nove bellissimi mortai, uno dei quali, il famoso «Sebastopoli», pesava la bellezza di sette tonnellate: ma quel singolarissimo negus non era soltanto un uomo di guerra. «Voglio», disse una volta, «che fra poco un bue da lavoro sia più pregiato in Etiopia che un cavallo da battaglia.» Amava teneramente la sua prima moglie, Favavich, e fu sconvolto dalla sua morte prematura.

Con gli anni, tuttavia, il re era divenuto sempre più matto: beveva quantità spaventevoli di «tecc», la forte bevanda abissina, e questo non lo aiutava affatto né a governare saggiamente né ad intrattenere amichevoli relazioni con le nazioni europee, i cui viaggiatori erano sempre intenti a percorrere il suo paese in su e in giù. Purtroppo per lui, il gioco delle circostanze finì per portarlo contro l'Inghilterra che era anche l'unica potenza in grado, allora, di andarlo a scovare anche in cima alle sue ambe, in quel lontanissimo paese.
Cominciò con l'imprigionare nella fortezza di Magdala, che era anche la sua capitale, un missionario britannico, padre Stern, e poi Lorenzo Kerans, che era segretario del console Cameron di Massaua, reo di avergli offerto in dono un tappeto nel quale si vedeva un cacciatore che uccideva un leone. Il leone, aveva argomentato Teodoro tra i fumi dell'alcool, era lui, il negus.
E il cacciatore era indiscutibilmente un bianco, per cui il tappeto era una sanguinosissima ingiuria. Recatosi a protestare, anche Cameron era stato brutalmente gettato in prigione, mentre Teodoro sbraitava che la regina Vittoria, sua pari come regina ma sua inferiore come donna, gli doveva ancora una risposta alla lettera inviatale parecchi mesi prima.

Il Foreign Office ci pensò sopra un poco, poi inviò la famosa risposta con due funzionari, Ordmuz Rassan di Aden e il medico Blanc, al quale si aggiunse il tenente Prideaux. Costoro dovettero attendere un anno intero, a Massaua, il permesso di recarsi al «ghebbì» imperiale, e poi furono fatti venire non per la strada più facile, ma per quella lunghissima del Sudan nubiano, infestata dal colera. Quando i tre arrivarono, il 26 gennaio 1866, Teodoro trattenne anche loro come ostaggi, riunendoli alla sua collezione di prigionieri europei, che ascendeva ormai a settantuno persone, e mandò a dire alla regina Vittoria che non avrebbe liberato nessuno se prima non gli fossero stati mandati altrettanti armaioli, operai e tecnici, per rimettere in funzione le sue fonderie. A questo punto il leone inglese aveva ruggito ed era stata dichiarata la guerra.
Per quanto si potesse già andare in barchetta dal Mediterraneo al mar Rosso, il canale di Suez, in quel 1867, non era ancora stato aperto: ma per l'Inghilterra questo fatto, che avrebbe scoraggiato qualsiasi altra potenza, non rappresentava un ostacolo, poiché disponeva in India di una base militare di perfetta efficienza. E l'India era vicinissima il mare, questa «larga strada di Dio», unisce e non divide. Perciò la spedizione «punitiva» venne organizzata intera-mente con truppe anglo-indiane e ufficiali di quella colonia.

Il comandante prescelto fu il generale Robert Cornelius Napier, nato a Ceylon, che aveva guadagnato tutti i suoi galloni nelle campagne cinesi e indiane, soprattutto in quelle originate dalle grandi ribellioni del 1847 e del 1857: che avesse polso non c'era neppure da discutere. Assieme al famoso colonnello Nicholson, Napier dopo la presa di Lahore e di Lucknow aveva fatto legare alla bocca dei cannoni centoventi ribelli, sotto le mura di Pesciawar e li aveva sparati in aria, per dare un esempio.

Aveva anche avuto uccisi sotto di sé due cavalli in battaglia e riportato tre ferite: quel che più conta, era stato capace, con soli settecento uomini, di battere i dodicimila del maharaja Tantia Topi, alla battaglia di Jaora Alipur.

La guerra fu vinta prima ancora di essere combattuta, sul piano informativo e politico. Per quasi un anno, gli inglesi studiarono con la massima cura le zone possibili per uno sbarco, le strade che avrebbero dovuto seguire e l'organizzazione dei servizi. Soprattutto cercarono di farsi un'idea chiara del rapporto che sarebbe corso tra le forze di re Teodoro, che era la noce da schiacciare e quelle che, data la natura dei luoghi, si potevano mandar loro incontro. Eccedere nella con¬sistenza del corpo di spedizione avrebbe significato inchiodarlo al terreno: risparmiare effettivi poteva significare presen¬tarsi al combattimento con una linea troppo leggera.
Le ricognizioni, e ancora più le informazioni di un prete abissino residente a Roma, padre Zaccaria, dimostrarono che la baia di Annesley, col porto di Zula (l'antichissima Adulis), era ancora la più conveniente sotto tutti i profili. Da lì, si poteva traversare il passo di Komaylo, sbucare nella conca di Senafé, proseguire sull'Ascianghi ed arrivare a Magdala: un percorso cioè che doveva rimanere la spina dorsale, tranne il primo tratto, di ogni movimento di truppa nei successivi settant'anni. Contemporaneamente vennero avviate trattative con i capi abissini dissidenti da re Teodoro: e ne venne gua¬dagnato un buon numero, sterline aiutando, alla causa inglese.

Il primo distaccamento d'esercito lasciò Bombay il 16 settembre 1867, e poco dopo sbarcò a Zula, esattamente a Molkutto. Sulle orme delle prime pattuglie avanzò una reconnoitring party, una specie di avanguardia, poi una pioneer force, che aveva l'incarico di costruire le strade, scavare i pozzi, posare il telegrafo e mettere a terra i binari di una ferrovietta decauville che ben presto funzionò tra Zula, nel bassopiano, e Senafé, sull'altopiano, a 2.400 metri di quota. Si noti che correva l'anno 1867."

Prima della sua fine, giunse anche il grosso dell'esercito, cioè il reggimento indiano Sind Horse, e con esso qualche decina di elefanti che seminarono subito nella zona il terrore: che diavoli erano mai i bianchi che riuscivano ad addomesticare persino l'elefante? E fu, anche questa, una buo-nissima idea, assieme all'altra di portarsi dietro poca artiglieria, ma molti razzi Congrève, gli avi dei nostri missili terra- terra: poco redditizi contro un avversario allenato, ma molto rumorosi e deterrenti contro le truppe di re Teodoro, come si vide al bisogno. Napier non era soltanto un generale, ma anche un ingegnere e un uomo intelligente.

A febbraio del 1868 il piccolo corpo di spedizione (non superava i trentaduemila uomini), fu sotto le impervie mura di Magdala, a cinquanta chilometri in linea d'aria da Dessié, molto più avanti e più dentro nel territorio etiopico di quanto non si siano mai spinte, per sostenere una battaglia decisiva, le nostre truppe, in qualsiasi occasione. Ma Napier sapeva bene ciò che faceva: in pratica non aveva linea logistica di rifornimento, poiché si portava tutto dietro, compresi venti attendenti per ogni ufficiale, e quindi non aveva a preoccuparsi di retrovie, come una nave che percorra il mare. ita2
E conosceva esattamente la situazione di re Teodoro, abbandonato dagli amici, ridotto a una forza ridottissima di cinquemila uomini ondeggianti e disperati. In più, il suo compito non era quello di occupare il territorio, ma di punire «un tirannello locale» e poi ritirarsi. Lo eseguì presto e bene.

Il 13 aprile 1868 gli eserciti si schierano in battaglia sotto le sinistre scarpate dell'Amba Magdala. Re Teodoro è tra i suoi, percorrendo a cavallo il fronte, impugnando convulsamente le grandi pistole ageminate d'oro. I suoi cannoni aprono il fuoco e due o tre proiettili si conficcano ai piedi del generale Napier. Subito l'artiglieria britannica risponde coi razzi e con le palle arroventate: Teodoro raccoglie un proiettile, lo soppesa e dice amaramente: «Che cosa ho io fatto agli inglesi perché mi mandino di questi regali?»
Sa che la battaglia è già perduta, perché i suoi ondeggiano sotto la pioggia dei razzi, terrorizzati da quel grandissimo prodigio: attorno a lui c'è un centinaio di armati, i più fedeli. Ma il resto sta fondendo come cera, al fuoco della battaglia.

Ora Teodoro piange lacrime di rabbia: entra nella sua tenda, scrive un biglietto per suo figlio Menechà: «Se la vittoriosa Inghilterra si impadronirà dell'impero, guerra agli oppressori: se si ritirerà, sii amico di coloro cui Iddio ha dato la vittoria, che ti sapranno proteggere. Sii grande come tuo padre». Vero o falso, è un testamento di straordinaria intuizione politica: la norma che detta sarà la stessa seguita da altri negus neghesti dopo Teodoro, da Menelik fino ad Haile Selassiè.
Morendo, Teodoro lascia un patrimonio di saggezza che sarà la radice prima delle nostre sventure.
Ma non fa soltanto questo. Chiama la seconda moglie e due suoi figli e chiede chi lo vuol seguire nella tomba: la moglie e un figlio si fanno avanti, mormorando che la vita non interessa più, se il grande Teodoro muore. L'altro figlio, Menechà, erge la testa e dice: «Padre, io vivrò per vendicarti». Teodoro sorride diabolicamente, in un ultimo sus¬sulto del suo spirito acre: «Tu meriti di morire, perché sei un vile: gli altri vivranno».
E veloce come la folgore uccide lui e se stesso, in un atto di terribile giustizia.
Forse fu così, forse è leggenda: gli inglesi, la sera della battaglia, durarono una gran fatica a ritrovare il corpo dell'imperatore, coperto da un semplice sciamma, come l'ultimo dei suoi soldati. E non poterono neppur stabilire se si era ucciso o se aveva ordinato che lo uccidessero i suoi fidi, forse i suoi familiari.
Ma probabilmente si tennero bene a mente ciò che aveva lasciato scritto e ciò che si diceva della sua fine. Difatti rifecero prontamente i bagagli e tornarono a Zula: il 18 giugno 1868 l'ultimo inglese si era reimbarcato. Neppure il leone inglese aveva artigli sufficienti ad azzannare terre così vaste e caratteri di quel calibro. Fu una lezione che venne accuratamente meditata e dalla quale il Foreign Office non derogò più: con gli abissini la politica più saggia era ancora quella dell'amicizia.
Nonostante che a Magdala ci fossero anche Osio e il suo collega di stato maggiore Ludolfo Bacon, la lezione che traemmo noi dagli stessi fatti fu essenzialmente diversa: battere gli abissini era facile, anche con poche truppe. Da questa convinzione nacque prima l'impresa di Assab e poi la sventura di Adua.


M.T. La Redazione, giugno 2016